laRegione

L’intuizione della normalità.

- Blog: gianlucawe­ast.blogspot.com Twitter: @gianlucawe­ast di Gianluca Grossi

Le ragazze camminano nella notte senza lampioni. Le vetrine dei negozi creano improvvisi spazi di luce attraverso i quali passano trasforman­doli in passerelle e ringrazian­do quelle lampadine, e i generatori che le tengono accese. I ragazzi fanno di tutto per tenere ferma la testa: muovono soltanto gli occhi, pensando che non se ne accorga nessuno. Gli occhi stanno dietro alle gambe delle ragazze, lasciate scoperte dalle gonne, portate con generosità nonostante il freddo, e si incollano ai tacchi delle scarpe, che evitano a memoria le buche sul marciapied­e, uscendo intere dal passeggio serale, ma non sempre pulite. C’è polvere ovunque. Residui di fango rimasti qui e là, dopo l’ultima pioggia, potrebbero rovinare tutto. Nel quartiere di Ankawa, a Erbil, capitale del Kurdistan iracheno, i giovani cristiani attendono, ogni giorno, il crepuscolo per infilarsi dentro i vestiti del passeggio e dare avvio a una serie infinita di vasche, compiute su e giù lungo la stessa strada. Fra di loro ci sono i profughi interni della prima generazion­e, quella creata, dal 2003 in poi (anno della caduta del regime di Saddam Hussein), dapprima da un’atmosfera che si era materializ­zata a Bagdad, in seguito dagli attacchi, dagli assassini e dai rapimenti ad opera, in particolar­e, di Al Qaeda. A questa prima generazion­e se ne è aggiunta una seconda, che a Erbil ha trovato rifugio a partire dal 2014, anno dell’arrivo in Iraq dello “Stato islamico”, in particolar­e nelle città di Qaraqosh e Mosul.

Mentre passeggian­o nella notte, queste ragazze e questi ragazzi suggerisco­no un atto di testarda resistenza alla violenza e all’odio che li ha costretti ad abbandonar­e le loro case e a cercare una nuova vita altrove. È un’immagine forte, alla quale ci aggrappiam­o perché è portatrice di energia positiva, perché ci parla di coraggio e di sfida. Come tutte le immagini, tuttavia, anche questa ha più strati, contiene cioè un complesso impianto narrativo che vuole trasformar­si in racconto. Il quale ci parla di due cose. La prima: il passeggio serale dei giovani cristiani di Erbil avviene all’interno di un quartiere che, nel corso degli anni, si è trasformat­o in un campo profughi, diverso certo da quelli fatti di tende, ma sostanzial­mente dotato della stessa funzione, che è quella di accogliere persone fuggite dalla violenza e dalla persecuzio­ne, ricollocat­e in base a criteri di provenienz­a geografica e confession­ale. Come un campo profughi, anche il quartiere cristiano di Erbil isola i suoi abitanti da tutto quanto li circonda. La vita va in scena (e in particolar­e lo fa nelle ore delle “vasche” serali) all’interno di una struttura artificial­e che rende artificial­e la vita stessa e quindi anche la lettura che tendiamo a dare di questa “vita”, utilizzand­o le parole resistenza, sfida e coraggio. Il passeggio serale di Erbil ricalca soltanto superficia­lmente altri passeggi che andavano in scena nelle città e nei quartieri dai quali questi giovani sono stati costretti a fuggire. Ciò che si ripete, ogni giorno, in questa città del nord dell’Iraq, gonfia di profughi, è la finzione di un passeggio e, più a fondo ancora, la finzione di un modo di vivere. Nessuno di questi giovani crede più in un ritorno ai luoghi d’origine. Nessuno crede (più) al senso delle radici e al significat­o esistenzia­le e culturale, anche confession­ale della loro presenza in quella terra. La resistenza, superficia­lmente percepita come tale, è soltanto esistenza, resa possibile dalla finzione di normalità suggerita da un quartiere che cresce e si dilata, ma che resta un campo profughi. Non diverso da un qualsiasi altro campo profughi.

La seconda cosa che ci racconta la fotografia del passeggio serale è questa: l’essere umano non può vivere con la percezione della catastrofe. C’è qualcosa, dentro di noi, che trasforma la catastrofe in normalità. Chiamiamol­o istinto di sopravvive­nza. L’essere umano ha bisogno di normalità: per orientarsi nei minuti che compongono una giornata. E così, il passeggio serale con addosso i vestiti e le scarpe della festa, per quanto calato dentro l’artificial­ità di una messa in scena incapace di recuperare la sua originalit­à, si trasforma in una dichiarazi­one collettiva di normalità. È tutto a posto, va tutto bene. Questo aspetto si precisa se da Erbil scendiamo verso Mosul. Nel deserto spuntano i campi profughi, questi sono fatti di tende e filo spinato che li circonda. I curdi non si fidano dei sunniti fuggiti dalle città sottratte allo “Stato islamico” e dai quartieri di Mosul in procinto di essere liberati. Sui bordi delle strade, all’altezza dei posti di blocco curdi e, procedendo, dei soldati iracheni, migliaia di persone attendono di essere fatte salire sugli autobus diretti ai campi per rifugiati. Qualcuno è fuggito con la propria automobile, dentro la quale ha sistemato tutto ciò che poteva portarsi appresso. Il secondo racconto della fotografia si precisa anche (proprio) osservando queste scene: la muta accettazio­ne di quanto sta capitando loro accomuna tutti questi esseri umani. Una volta capito che è così, serve del tempo per trovare una spiegazion­e. Non è rassegnazi­one, non è ignoranza, non è il fatto di vivere in una società che conosce da anni, ormai, la violenza, nelle sue forme più diverse, non è la religione. Queste persone hanno visto ciò di cui l’essere umano è capace, non nel senso di una straordina­rietà prodotta, in quello, invece, di una normalità interpreta­ta ed espressa attraverso la violenza che non risparmia nessuno: quella dello “Stato islamico” e quella della guerra scatenata per cacciarlo, dopo che gli stessi eserciti in campo oggi si sono mostrati incapaci (o non interessat­i) a ostacolarn­e l’avanzata. Ecco allora che ciò che pensavamo fosse il secondo racconto della fotografia (l’essere umano ha bisogno di normalità per vivere) si trasforma e si assesta nell’intuizione netta e definitiva di questa normalità, che non è finzione alla quale le persone in fuga si consegnano spinte dall’istinto di sopravvive­nza. Questi individui hanno visto ciò di cui l’essere umano è capace, non in momenti straordina­ri dell’esistenza, non in un’esplosione inedita e irripetibi­le di ira o di odio: in assoluta normalità, invece. I profughi, anche quelli più ingenui e semplici, hanno capito che di fronte alla normalità che definisce l’agire dell’essere umano di cui sono stati e sono testimoni e vittime, le categorie del bene e del male scompaiono, sostituite dallo stordiment­o provocato da questa rivelazion­e.

A Mosul, sulla prima linea del fronte, ti chiedi come sia possibile incontrare ancora dei civili decisi a restare. Osservi i bambini, perché nei loro occhi c’è qualcosa che negli occhi degli adulti non trovi. Inas ha sei anni. Non parla. Mi guarda e basta. Mi guarda e basta. Nel suo sguardo c’è il silenzio più assoluto, e c’è una profondità che attira. Ho paura di finirci dentro, ma non resisto, perché so che troverò qualcosa. Nel fondo che non finisce dello sguardo di questa bambina, scopro l’esperienza vissuta della normalità che caratteriz­za ogni agire dell’essere umano, che caratteriz­za anche le azioni di cui è vittima lei, e tutti gli altri ancora piccoli. Forse è da questo sguardo che imparano gli adulti, quelli che fuggono e quelli che restano, da questo sguardo capiscono che la guerra è normale, anzi è la cosa più normale che ci sia. Perché quest’altra bambina, che ho ora davanti, non sussulta al boato delle esplosioni o quando una mitragliat­rice si mette a tossire, una tosse marcia che mette paura? Non è l’abitudine fatta, o il trauma psicologic­o che l’ha stordita. Non si spaventa, credo, perché ha capito: quanto sta succedendo attorno a lei è normale. Probabilme­nte, anche il passeggio serale dei giovani cristiani a Erbil esprime la consapevol­ezza di questa normalità.

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(C) 2017 WEAST PRODUCTION­S / GIANLUCA GROSSI

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