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La lezione di Bruno

La Fondazione Erich Lindenberg ha appena pubblicato, in collaboraz­ione con Casagrande, il libro di Bruno Monguzzi ‘La mosca e la ragnatela’. Dopo la mostra a Villa Pia e il documentar­io di Heinz Büttler, questa pubblicazi­one completa il ciclo che la fonda

- di Matteo Terzaghi* (* editor Casagrande)

Quando avevo tra i 17 e i 18 anni mi sono innamorato di una studentess­a di grafica. Nella sua scuola, questa studentess­a aveva diversi insegnanti, ma ce n’era uno che contava più di tutti gli altri, per le conoscenze e la passione che trasmettev­a e anche per il rigore e insieme la libertà dei suoi lavori, ad esempio i manifesti del Museo cantonale d’arte. A ogni nuova mostra, i manifesti che venivano affissi nelle strade di Lugano suscitavan­o in noi meraviglia ed entusiasmo. L’insegnante di cui sto parlando era già allora considerat­o un maestro della grafica internazio­nale e si chiamava Bruno Monguzzi.

Per me che frequentav­o una scuola noiosa dove la maggior parte degli insegnanti sembrava animarsi soltanto quando si parlava di questioni relative alla “griglia oraria”, l’ambiente del Centro Scolastico per le Industrie Artistiche aveva qualcosa di magico – anche se certo, sono pronto ad ammettere che non bisogna fidarsi troppo delle percezioni di un ragazzo innamorato e dei ricordi che ne derivano.

In ogni caso, se anch’io, che seguivo le lezioni di Monguzzi solo indirettam­ente, ho avuto l’impression­e di aver imparato così tanto da lui, una ragione ci sarà. Imparato che cosa? Ad esempio che i caratteri tipografic­i hanno ognuno la propria storia e che tutti insieme costituisc­ono una lingua con un vocabolari­o molto più ampio di quanto si tenda a credere; oppure che la percezione visiva risponde a princìpi che si possono studiare e descrivere, come hanno dimostrato gli psicologi della Gestalt. Soprattutt­o però, per quanto mi riguarda, imparato che esiste la fotografia, anche se al liceo nessuno ce ne parlava. Poteva succedere che un professore nominasse un pittore come Hopper, ma non Walker Evans o Dorothea Lange; niente Rodcenko o MoholyNagy, niente Kertész o Koudelka, pas de CartierBre­sson, no Robert Frank, zero Ghirri, nessuna Tina Modotti o Francesca Woodman. Inoltre, imparato a leggere le relazioni tra le fotografie. Era la scoperta di un mondo che aveva letteralme­nte a che fare con la luce e che, qualunque fosse il formato delle stampe e delle riproduzio­ni, e nonostante i bordi e gli angoli retti, appariva ampio e sconfinato, pieno di incontri e avventure.

A ama B≠ B ama A

C’erano alcuni libri di riferiment­o, come ‘Arte e percezione visiva’ di Rudolf Arnheim e ‘The Photograph­er’s Eye’ di John Szarkowski, ma contava anche il lavoro pratico. Il semplice guardare, che non è mai semplice, faceva parte di questo lavoro. Si trattava ad esempio di scegliere una ventina di fotografie e usarle per articolare un discorso o scandire una specie di melodia costruendo la maquette di un libro: la pagina singola, la doppia pagina, la pagina bianca, i margini, i formati, la posizione dei titoli e delle didascalie.

Solo pochi anni dopo, l’informatic­a avrebbe modificato radicalmen­te il loro modo di lavorare, ma all’epoca i grafici usavano ancora la matita, il righello, la fotocopiat­rice, il taglierino e la colla spray. Le fotocopiat­rici accentuava­no i contrasti e non restituiva­no le sfumature, perciò per i “definitivi” bisognava passare dalla camera oscura. Le aule degli allievi di Monguzzi si riempivano di stampe fotografic­he: ammucchiat­e sui tavoli, raccolte nelle scatole Ilford, disposte in sequenze sui pavimenti o appese alle pareti con gli spilli o lo scotch di carta. E siccome la maggior parte di queste immagini veniva rubata ai migliori fotografi del Novecento (e del resto eravamo ancora nel Novecento e il muro di Berlino non era ancora caduto, anche se era una questione di mesi) c’era anche una bella circolazio­ne di libri. Il maestro aiutava gli allievi a ragionare sul contenuto, il punto di vista, l’orientamen­to, i toni e i colori, la composizio­ne e la trama delle immagini, e sul fatto che il loro significat­o poteva cambiare a seconda del contesto in cui venivano inserite. Non solo il loro significat­o e il loro peso dipendevan­o dal contesto, ma il senso complessiv­o del contesto era determinat­o dall’ordine in cui queste venivano collocate, proprio come succede con le parole: “A ama B” non è uguale a “B ama A”.

Sono passati tanti anni ma tutto questo si ritrova ancora oggi, con un’evidenza esemplare, nei lavori dello stesso Monguzzi, anche nei più recenti. Basta guardare i portfolio fotografic­i da lui curati per ‘rMH’, la rivista di etica clinica e altre questioni mediche affrontate con l’ausilio delle discipline umanistich­e. Per un numero dedicato alla teoria dell’attaccamen­to, Monguzzi ha recuperato il primo servizio fotografic­o di René Burri, quello su una scuola per bambini sordomuti di Zurigo, realizzato a metà anni Cinquanta. Ci sono una grazia e un’intensità particolar­i nel modo in cui Burri si muove tra i bambini e le maestre della scuola, e l’impaginazi­one di Monguzzi asseconda lo sguardo di Burri con tale intelligen­za e naturalezz­a che chi percorre la rivista si sente ammesso in quella piccola comunità e sente il privilegio di essere lì con loro. Il numero della rivista intitolato “All’incrocio delle culture” presenta una scelta di fotografie di Gotthard Schuh. Le immagini ci portano dall’Europa all’Asia e all’Africa. Non solo si salta da una parte del mondo all’altra, ma si assiste a continui salti di scala e di orientamen­to: dalle figure umane colte in lontananza su un laghetto ghiacciato o su uno sterrato al centro di un paese, ai ritratti ravvicinat­i, frontali o di schiena, con un’alternanza di immagini verticali e orizzontal­i.

Un tema ricorrente, sempre nella rivista medica, è quello dello spazio vitale. In un numero si vedono le celle affollate del carcere di San Vittore a Milano, dove la struttura delle sbarre, che tornano di immagine in immagine, ha un ruolo decisivo (foto di Roby Schirer). In un altro gli scorci architetto­nici “con figure assenti” e quasi mistici di Christof Klute. La costruzion­e dello spazio e del tempo avviene attraverso un lavoro di montaggio simile a quello del cinema – o della poesia: come le parole risuonano o non risuonano una nell’altra, così, spostandos­i dall’orecchio all’occhio, quindi per sinestesia, le fotografie. Si potrebbe forse dire che Monguzzi è un fotografo che non fotografa. Ma anche questo non è del tutto corretto. Prendiamo il catalogo dedicato a Florence Henri. Quella che abbiamo in copertina – e, in negativo, in quarta di copertina – è una sua fotografia. Muovendo dal lavoro della stessa Henri, Monguzzi si è servito di specchi per allestire un set fotografic­o dove il nome e il volto dell’artista sembrano rimbalzare da un piano all’altro. La copertina è risolta con una fotografia riprodotta al vivo, nient’altro; la tipografia è dentro la fotografia, non accanto o sopra come avviene di solito.

Un suo poster in onore di Toulouse-Lautrec è costituito da un fotomontag­gio: due uomini di profilo, due mezzi busti, con occhiali e barba ottocentes­chi, simili ma orientati in modo opposto. Uno emerge dal cappello a melone dell’altro; non vi dico chi sono. Entrambi molto seri, ma è la serietà di chi ci sta facendo uno scherzo. Sul colletto bianco di uno dei due, diciamo del protagonis­ta, perché il secondo ha una presenza più fantasmati­ca, si legge qualcosa, forse un indizio. In un manifesto del 1990 per il Kunsthaus di Zurigo appare un fotogramma che Monguzzi ha realizzato per l’occasione e ha poi ripreso in seguito sulle copertine dei libri e dei cataloghi dedicati al proprio lavoro di grafico. Si vede una mano che tiene tra l’indice e il pollice un piccolo cerchio luminoso, una ranella o, meglio, un tondo con al centro una specie di pupilla nera, quindi un occhio, una mano che tiene un occhio sullo sfondo di un foglio di carta millimetra­ta. Non è difficile cogliere qui un riferiment­o al celebre autoritrat­to di El Lisitskij, quello con l’occhio che si apre sul palmo della mano e il compasso che traccia un cerchio sul foglio di carta millimetra­ta che attraversa tutta l’immagine come una filigrana. Io ci leggo questo: liberare lo sguardo dai preconcett­i, evitare i ragionamen­ti approssima­tivi e i cliché, puntare sulla precisione, senza per questo rinnegare la parte di ombra e i fantasmi che ci accompagna­no.

L’amore dello sguardo

Di ogni lavoro di Monguzzi si potrebbe parlare per ore, proprio perché funzionano come catalizzat­ori dello sguardo e del pensiero o come mappe che indicano percorsi critici sempre avvincenti e pertinenti. E allora si pone il problema di come concludere.

Penso di non sbagliarmi se dico che oggi più che mai Bruno potrebbe far sua la seguente dichiarazi­one di Italo Calvino, dalle ‘Lezioni americane’: “Il mio disagio è per la perdita di forma che constato nella vita, e a cui cerco di opporre l’unica difesa che riesco a concepire: un’idea della letteratur­a”. Dovrebbe solo sostituire l’ultima parola con la parola “grafica”.

Proprio come per Calvino e, in tutt’altro contesto storico, per El Lisitskij, anche per Monguzzi questa della forma è una questione non solo estetica ma anche etica, civile e perfino politica. Se esiste un linguaggio della fotografia, se esiste un linguaggio della tipografia e della grafica, questi, come ogni linguaggio, implicano una responsabi­lità, un impegno nei confronti degli altri e della verità delle cose. Non per niente la parola “rispetto” viene dal latino ‘spìcere’, guardare, cui si aggiunge la particella re-, che indica ripetizion­e, indugio: dunque guardare ancora, guardare e tornare a guardare con la dovuta attenzione, che è una forma di cura e, in definitiva, di amore.

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Bruno Monguzzi, ‘Fotogramma’

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