Sono e resto Federico
Federico Morlacchi, campione paralimpico di nuoto
‘Sapere che anche solo un ragazzo si appassiona a questo sport per merito mio, mi fa più piacere che vincere una medaglia d’oro’. In queste semplici ma efficaci parole – dietro le quali si cela un velo di commozione – è racchiuso il pensiero di un plurititolato atleta paralimpico affetto da ipoplasia congenita al femore sinistro.
Un campione di sport, Federico Morlacchi. Certo, ma anche di ironia e di simpatia, pronto alla battuta, con la qualità non comune di non prendersi troppo sul serio, pur continuando a essere anche un atleta di livello mondiale, con tutto quello che questo onore comporta in termini di sacrificio, volontà, forza d’animo e determinazione. Federico la sorvola, la disabilità, con una leggerezza pregevole. «La ipoplasia significa solo che ho un femore più corto. Un osso della gamba non si è sviluppato bene». Affermato atleta paralimpico, Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana per meriti sportivi, ieri un bimbo che non ha mai sofferto il confronto con i “normodotati”. «Non ho mai avuto alcun problema a rapportarmi con i miei coetanei. Lo devo alla mentalità inculcatami da mia mamma, una donna forte. Quando avevo cinque anni mi ha insegnato a dire che ho la gamba più corta ma il pisello lungo (ride, ndr). Faccio tutto. Non posso correre, sai che disperazione...». Al nuoto che oggi lo celebra, Morlacchi si è avvicinato per risolvere qualche problema fisico dovuto alla malattia. «Mi ci hanno proprio spedito, in piscina. Come un pacco. A causa degli scompensi dovuti all’ipoplasia dovevo fare determinati esercizi, per stare meglio, e ci sono andato. Mia madre mi raccontò che al mio primo corso di nuoto c’era un’istruttrice per me, una per gli altri. Dopo due lezioni, gli altri avevano due istruttrici, io nuotavo da solo». È però vero che nel Morlacchi-pensiero l’acqua ha avuto e continua ad avere anche un potere quasi taumaturgico. Quantomeno benefico. Gioca un ruolo importante, anche in relazione alla malattia. Lo ha aiutato, in passato, a farlo sentire normale agli occhi di quanti lo considerano disabile, confinandolo in quella che lui stesso ha definito la parte nascosta del nuoto, dello sport in generale. «L’acqua, e più in generale lo sport, aiutano a lasciarsi dietro quel concetto superato che vorrebbe il disabile a casa, come se dovesse vergognarsi. Tre anni fa la piccola Emma (10 anni, nuotatrice della Nuoto Sport Locarno afflitta dalla medesima malattia di Federico, ndr) venne a casa mia per chiedermi consiglio. Dopo tre anni è ancora una giovane atleta che pratica il nuoto. È fantastico».
Gli occhi gli si illuminano...
Invogliare altra gente a fare sport è il miglior risultato che potessi ottenere, oltre alle medaglie. È questo il messaggio che deve passare attraverso esempi come il mio, o come quelli di colleghi ben più famosi di me, come Alex Zanardi o Bebe Vio. Una citazione da un‘intervista di qualche tempo fa: “Sport è fare bene quello che ti piace fare. Se poi riesce bene, meglio. Il bello dello sport è che ti pone davanti ai tuoi limiti. La sfida che ti lancia è provare a batterli, batterli, batterli. Il brutto dello sport è che a volte cadi e ti fai male. A volte fa anche molto male. L’atleta si distingue perché sa rialzarsi e continuare. Lo sport ti aiuta tantissimo a forgiare il carattere, ti aiuta a vincere e a perdere. Ho preso tanti schiaffi da non ricordare quanti. Con tanto sacrificio e tanto lavoro si può arrivare in condizione e ottenere il massimo”.
Sono concetti ancora attuali?
Ma le ho dette io, queste cose (risata, ndr). Beh, è ancora la mia filosofia. Se facessi sport solo per vincere, dovrei smettere al primo insuccesso. Il momento della sconfitta arriverà. Tuttavia, finché mi diverto, finché mi piace e mi fa stare bene, finché nel nuoto ho i miei amici, voglio continuare. Il messaggio che lo sport deve veicolare è che le batoste non si prendono solo nello sport, bensì anche nella vita. Se nello sport non reagisci, puoi cambiare disciplina. Se invece non reagisci nella vita, non la puoi cambiare. Devi sempre provarci, non ce n’è.
Sacrificio e passione, elementi inscindibili.
Senza passione e senza divertimento non c’è più niente. Essere costretto a fare qualcosa non è nell’interesse di nessuno. In questo sport che ti richiede tanti sacrifici e tanta fatica, se non hai passione e non ti diverti, non hai possibilità di emergere. L’atleta è formato da tante cose: le doti naturali, il lavoro, la voglia di fare. C’è una massima che recita: “Il duro lavoro batte il talento quando il talento non lavora duro”. Credo che sia la sintesi di tutto quello che penso. Ma dietro a lavoro e talento devono per forza esserci tanta volontà e un obiettivo. E devono coesistere.
Il nuoto è disciplina individuale. Quanto conta il compagno di squadra?
Premessa: ci sono due tipi di sportivo: quello che ragiona da squadra, per cui si vince e si perde insieme, e quello che ragiona da singolo, che si chiede perché debba perdere una medaglia per la controprestazione di un compagno. Io amo le staffette, e questi “brutti pensieri” li ho superati proprio perché apprezzo il concetto di squadra, di condivisione del traguardo. Il vero compagno di squadra è quello che in allenamento ti sta a fianco, sta alla battuta, anche quando non si va d’accordo. Questo tipo di relazione è il sale della vita.
Campione olimpico, plurititolato. La popolarità...
Io sono e resto Federico. La popolarità dovuta ai risultati non cambia quello che sono o quello che faccio. Sono e resto un atleta. Io nuoto. C’è tanta gente che vive sull’onda della popolarità, ma non è il mio caso. Se sono lì, è perché nuoto. Nel nuoto un allenamento perso rischia di fare la differenza. Io non voglio perderne neanche uno.
Sponsor, soldi... Citiamo: ‘Se lo facessimo per i soldi, non ci sarebbe nessuno in piscina.’ È ancora così?
Dopo Rio qualcosa è cambiato. Con i premi delle medaglie mi pago l’affitto, ma non è così per tutti. Chi è quinto al mondo non ha nemmeno uno stipendio.
Non prendersi troppo sul serio aiuta?
A me sì. Sono sempre stato così. Mi piace scherzare, so sdrammatizzare. Capita che una gara vada male, capita a tutti. Per fare una gara giusta, devi azzeccarle proprio tutte. Per contro, un singolo piccolo dettaglio può compromettere una prestazione.
Tokyo 2020?
L’obiettivo c’è. Poi, da lì, anno per anno. Quando la voglia mi abbandonerà, alzerò le mani, saluterò e ringrazierò tutti. Faccio fatica a vedermi tra dieci anni. Finché mi piace, continuo. Cominciamo dai Mondiali di Città del Messico. Sono particolari, in altura. È una trasferta lunga, starò via un mese, in una città non esattamente ospitale. Sarà difficile confermarmi, ma lo dico anche perché so di essere un po’ paraculo. La volontà di fare bene c’è, con gli allenamenti sono a posto. Vediamo però cosa combinano gli altri. Uno più forte di te c’è sempre. L’importante non è batterli tutti, l’importante è batterne sette nella tua finale.