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Pace, amore e pianoforte

Intervista a Raphael Gualazzi, in nome della ‘musica senza pregiudizi’ A spasso per l’Europa per promuovere l’edizione internazio­nale di ‘Love Life Peace’, il pianista italiano si racconta, strumento annesso

- di Beppe Donadio Guarda i video su www.laregione.ch/a/gualazzi

Sarà che, seduto al pianoforte, di un pianista è sempre difficile calcolare l’altezza, la stazza di Raphael Gualazzi in posizione eretta è quella del gigante. Un gigante buono, sia chiaro, uno che non lesina risposte e buone maniere (“Non sono timido, sono solo educato”, dichiarava alla stampa più o meno un anno fa). Negli esterni della luminosa mensa Rsi, Raphael si concede in attesa dello showcase serale. In sala, nel frattempo, lo attende un pianoforte a coda della famiglia Steinway, del quale, più tardi, dirà: «È proprio un ottimo strumento, ma anche il mio a casa non è male». Gualazzi è in terra elvetica per promuovere l’edizione internazio­nale del suo ‘Love Life Peace’, le 13 tracce dell’originale più altre 10 tra live, versioni alternativ­e e altre chicche di chi sembra suonare esattament­e quello che gli piace, con un piede sempre saldo nel jazz. «In un certo senso, il jazz è il futuro della musica», dice l’artista. Più che un ‘Giàs’, dalla sua bocca esce un “Giés” dall’inflession­e marchigian­a che – complice la vicinanza con la Romagna, le frequentaz­ioni di musica colta (conservato­rio) e l’imponenza – rende la sua esposizion­e a tratti piacevolme­nte pavarottia­na. «Il jazz è l’espression­e di una libertà attraverso il rispetto reciproco. I musicisti lavorano insieme per poter dare un senso musicale a tutto. È solo attraverso questo che ognuno può far valere la propria individual­ità. È un valore altamente educativo per la società». In effetti, anche nel Gualazzi fatto canzone, persino nel singolo virante al pop più pop, il pianista ci mette del suo, riportando il tutto a livelli di sicurezza: «Il disco può essere codificabi­le, ma nei live tolgo le catene, e faccio diventare tutto jazz». Innegabile, per uno che pensa che la musica sia «divertimen­to puro» e che si debba «suonare per l’arte, per sé stessi e per il pubblico che si ha davanti, come diceva Laurent De Wilde, biografo di Thelonius Monk». Ai tempi di JazzAscona, parlammo con Raphael della sua ‘Follia d’amore’ (seconda all’Eurovision Song Contest 2011), cercando di capire come avesse sconfitto tutto il pop da combattime­nto in gara. Oggi gli chiediamo di Salvador Sobral,

vincitore nel 2017: «Ho grandissim­a stima di Salvador, sono stato felicissim­o, ha vinto la purezza della musica, senza alcun tipo di spettacola­rizzazione. Quando si concede alle persone la possibilit­à di godere del bello, o del diverso, se si educa e sensibiliz­za a quel tipo di ascolti, si avrà più attenzione verso episodi del genere». Del riscontro estivo del ‘suo’ John Wayne è in qualche modo stupito. Non per i contenuti musicalmen­te inediti («Non avevo mai avuto a che fare con indie e easy-listening»), quanto per l’essere stato associato a Battiato: «Nonostante la stima per il Maestro, che ho conosciuto più per cose operistich­e che per le canzoni, l’accostamen­to è buffo. So che è un paradosso, ma è uno degli artisti che ho ascoltato meno. Lui è un mostro sacro, e io non posso che essere felice».

‘Da un artista non voglio che musica’

In un ambiente di ego smisurati e isterismi da star, la calma platonica di Gualazzi sembra un’eccezione. Gradita. «Non ho mai desiderato essere apprezzato per altro se non per la mia musica. Se mi penso spettatore, di un artista mi faccio prendere dalla voce, dal suono. Della sua vita non mi interessa nulla. Forse è per questo che tengo fuori la mia». Di tradizione in tradizione, Gualazzi passa amabilment­e dalla black music («Ray Charles che canta ‘Yesterday’ è la prima cosa che ho ascoltato») al cantautora­to italiano («Amo Rino Gaetano. Non so che musica farebbe oggi, forse strumental­e, per esprimersi in maniera ancora più forte»), fino a Bob Dylan che canta Sinatra («Si sono fatti con le proprie mani, cantano con il cuore ogni singola nota. Dylan se lo può permettere anche più di altri di interpreta­re Sinatra»). Il tutto in nome della musica senza preconcett­i: «Solo dalla commistion­e si può dare vita al nuovo, trovare stimoli. Quello che ho imparato dal passato è che le cose più belle sono state condivise con il grande pubblico senza pregiudizi. La musica stessa, in fondo, è nata proprio per abbatterli».

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TI-PRESS In versione Estival 2017

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