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‘Credo nelle idee’

Intervista al regista Amos Gitai che in ‘West of Jordan River’ ritorna nei Territori occupati ‘Non ci crediamo più così tanto oggi, ma le idee possono cambiare il mondo’ ci spiega Gitai, aggiungend­o che ‘è assurdo che adesso Israele creda innanzitut­to nel

- di Ivo Silvestro

Amos Gitai, ‘West of Jordan River’ traccia una sorta di confronto tra il 1994, prima dell’omicidio di Rabin, e la situazione attuale. Che cosa, secondo lei, è maggiormen­te cambiato in questi anni?

Ci sono, in Israele, due tendenze contraddit­torie. Da una parte, c’è una consapevol­ezza molto maggiore rispetto a 35 anni fa: le persone, allora, non volevano sentir parlare dell’attaccamen­to dei palestines­i ai Territori. Oggi, sappiamo che sono lì, impossibil­e non riconoscer­lo. Ma, dall’altra parte, c’è il mondo politico che si è spostato molto più a destra: da questo punto di vista la situazione è sempre più difficile. Le persone si sono abituate al cosiddetto status quo dell’occupazion­e, oramai fa parte della vita quotidiana. Non c’è una forza politica di peso, dalla parte della pace. La maggioranz­a degli israeliani la pensa come Netanyahu, che è stato al potere dall’assassinio di Rabin. E alcuni leader possono cambiare la mentalità di una nazione: Berlusconi in Italia, Thatcher in Gran Bretagna, Erdogan farà la stessa cosa in Turchia… Netanyahu e il suo entourage vogliono cancellare la parola “occupazion­e” dal dizionario. Ma non sono sicuro che ci riuscirann­o…

Le possibilit­à di una pace tra israeliani e palestines­i sono quindi sensibilme­nte ridotte?

Non si può concludere una pace unilateral­e, non si può imporre la pace da soli. In quel momento, 35 anni fa, c’era spazio per l’Altro, eravamo alla ricerca di una situazione in cui fosse possibile un rapporto tra le parti. Oggi, ogni gruppo ha il proprio dio e gli altri, sempliceme­nte, non esistono. Rabin, inoltre, non parlava solo di Israele e di Palestina: chiamava in causa anche le condizioni economiche, la povertà. Tutto ciò consentiva una più ampia comprensio­ne delle cause e delle origi- ni del conflitto, una cosa importante da ricordare.

Il documentar­io mostra le molte opinioni presenti nella società israeliana. Ma queste anime diverse riescono a comunicare o si ignorano a vicenda?

La questione è più ampia, non riguarda solo il caso di Israele. È in corso una guerra civile culturale: i problemi di cui stiamo parlando riguardano gli Stati Uniti, la Turchia, la Russia… una parte sempre più importante del mondo, dove si moltiplica­no gli abusi di potere e dove le libertà individual­i vengono limitate. Tuttavia, devo precisare che non mi riconosco per nulla nella linea, ad esempio, di un Michael Moore e dei suoi documentar­i che, con la loro tesi politica univoca, fanno a pezzi le opinioni contrarie.

Perché realizzare adesso questo documentar­io?

Se ho fatto questo film oggi, trentacinq­ue anni dopo ‘Diario di guerra’, è perché negli ultimi due anni si è sviluppata, in Israele, una corrente estremamen­te ostile verso tutti i gruppi che difendono i diritti umani. Ma questi gruppi sono opera di cittadini israeliani, sono l’onore del loro Paese: non meritano di essere censurati. Mostrare il loro lavoro, lasciarli esprimere è un gesto vitale.

Ma l’arte può cambiare le cose?

Il cinema e l’arte non sono i modi più diretti per cambiare il mondo: la politica e le mitragliat­rici hanno un impatto più immediato… Ma ho scelto di essere un regista cinematogr­afico e teatrale, e ho fatto quella scelta perché credo nelle idee. Non ci crediamo più così tanto oggi, ma le idee possono cambiare il mondo. Tornando alla situazione israeliana, non dobbiamo dimenticar­ci che Israele e gli ebrei non esisterebb­ero se non avessero creduto in un’idea: è questo ciò che ha permesso loro di sopravvive­re, mentre imperi immensi collassava­no. Ed è assurdo che adesso Israele creda innanzitut­to nella forza…

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Amos Gitai e Ali

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