La questione capitale
Donald Trump ha ufficializzato il riconoscimento dello status di Gerusalemme rivendicato da Israele, annunciando anche il trasferimento dell’ambasciata da Tel Aviv. ‘Una scelta necessaria per la pace’, ha detto il capo della Casa Bianca, rovesciando 70 an
Washington/Tel Aviv – “È la cosa giusta da fare”. Poche parole per annunciare il riconoscimento statunitense di Gerusalemme capitale dello Stato di Israele. O per “spalancare le porte dell’inferno”, secondo l’enfatica propaganda di Hamas. Qualcosa di storico è riuscito ieri anche a Donald Trump. Con un brevissimo intervento nella Diplomatic Reception Room della Casa Bianca, il presidente ha rovesciato settant’anni di politica estera statunitense, affermando che il riconoscimento della pretesa israeliana è “una scelta necessaria per la pace”. Il solo a esultare, per ora (altri seguiranno senz’altro), è stato Benjamin Netanyahu. Per il capo del governo più a destra nella storia di Israele, quello di Trump è stato un “atto giusto e coraggioso”, una “decisione storica”. Il passo successivo sarà di conseguenza il trasferimento dell’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme. Ma su questo Trump è stato evasivo: vedremo quando sarà il momento opportuno. Annunciata, attesa e in un certo senso temuta, la decisione del presidente Usa è stata sino all’ultimo “sconsigliata” da una parte della sua stessa Amministrazione, e da quei pochi che si ritengono “alleati ascoltati”, ma com’è nel suo stile, Trump ha solo tratto slancio dalle critiche che gli sono fioccate addosso. «Non si può continuare con formule fallimentari, per risolvere la questione israelo-palestinese serve un nuovo approccio», ha sostenuto, ricorrendo a una banalità per legittimare un passo di cui (forse) conosce la portata destabilizzante. «Gli Stati Uniti – ha detto il solitamente remissivo Mahmud Abbas, presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese – hanno rinunciato al loro ruolo di mediatori di pace. Trump ci porta in una guerra senza fine».
Il ‘piano’ di Kushner
Al contrario, Trump ha assicurato che la sua fuga in avanti “non comprometterà” un processo negoziale peraltro già agonizzante, spingendosi a sostenere che gli Stati Uniti continuano a considerare la via dei due Stati quella da percorrere, oltre ad essere quella condivisa dalla diplomazia internazionale. E per sovrappiù, ha evocato un non meglio definito piano a cui sta lavorando da tempo la Casa Bianca, affidato alla nota scienza diplomatica del genero Jared Kushner, col segretario di Stato Rex Tillerson messo ancora una volta ai margini, mentre il vicepresidente Mike Pence sarà inviato nella regione settimana prossima. Non dev’essere parso vero a Turchia e Iran, per dirne due. «La Palestina sarà liberata» ha raffermato la Guida Suprema di Teheran Ali Khamenei. Mentre la Lega Araba si prepara sabato a riunire i suoi ministri degli Esteri, e il presidente turco Erdogan ha convocato un summit dei Paesi islamici a Istanbul, dopo aver – ritualmente – minacciato la rottura dei rapporti diplomatici con Israele. Ma le critiche sulla decisione di Trump sono piovute anche dall’Europa, dalla Nato e dal Palazzo di vetro. Il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha espresso tutto il suo disappunto per una decisione che smentisce 70 anni di risoluzioni Onu. Le sue parole, chiare seppure impotenti, hanno ribadito che “Gerusalemme è la capitale di Israele e dei palestinesi. E non esiste un piano B rispetto alla soluzione dei due Stati”. Senza perdere tempo, infine, i movimenti palestinesi hanno animato la prima delle tre “giornate di collera” proclamate in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, con i bruciabandiere subito all’opera. L’esercito israeliano è in stato d’allerta e la polizia ha detto di essere pronta a reagire immediatamente ad ogni genere di disordini. La paura è per venerdì, in occasione delle preghiere sulla Spianata delle Moschee a Gerusalemme, in Cisgiordania e a Gaza.