‘Tutti siamo parola’
Il vescovo di Lugano: la presenza dei preti non è l’unica forma di testimonianza cristiana
La crisi delle vocazioni? Un tema che va approfondito, estendendo il termine ‘vocazione’ all’intera comunità dei credenti. L’accordo sull’ora di religione a scuola? Un buon risultato. La presenza nel territorio? Con un potenziamento della formazione. E ancora, la fuga dall’ascolto e, anche, quel ruolo dei partiti che non c’è più... Riflessioni a ruota libera con mons. Valerio Lazzeri. Il 7 dicembre di quattro anni fa l’ordinazione episcopale, nella basilica del Sacro Cuore perché la cattedrale di San Lorenzo, oggi ridonata alla città di Lugano con le meraviglie del tempo, era in restauro. Ed è toccato a lui, al vescovo Valerio
Lazzeri restituire ai fedeli il tempio della diocesi luganese. Un bel capitolo portato a termine, impegnativo e per nulla scontato. Come, più recente, il compromesso raggiunto fra lo Stato e le Chiese sull’ora di religione a scuola. «Era necessario raggiungere un accordo, per il bene dell’intera comunità», commenta con sincera soddisfazione, fra le pareti del suo ufficio in Curia. «Ma andiamo di là, che qui fa freddo», aggiunge subito, da premuroso padrone di casa, in questo tardo pomeriggio novembrino, a pochi giorni dall’inizio dell’Avvento.
Monsignore, iniziamo dall’attualità, dall’accordo sull’ora di religione. Come c’è arrivata la Diocesi? Con quali fatiche e aspettative?
Le dirò che solo superficialmente sembra una svolta o un cambiamento radicale rispetto a quello che si è detto in precedenza. In realtà noi abbiamo sempre avuto la preoccupazione per gli allievi che non frequentando i corsi oggi offerti dalle Chiese non ricevono dalla scuola elementi specifici sul tema. Abbiamo sempre sentito una responsabilità verso i giovani ticinesi che escono dalle scuole senza strumenti culturali adeguati per affrontare la complessità del fatto religioso. Al riguardo, il dialogo con il Decs in precedenza era stato aperto e portato avanti. Ci si è poi bloccati su alcuni elementi, come la continuità didattica e la figura dell’insegnante. Tuttavia, non è mai stata dimenticata l’esigenza di raggiungere tutti gli allievi con qualcosa di qualitativamente valido e corrispondente alla serietà del tema.
I non credenti temono un’influenza eccessiva della Chiesa anche sull’ora di storia delle religioni e vorrebbero una visione laica.
La visione laica di questo insegnamento non è mai stata messa in discussione, visto che sarà comunque lo Stato a organizzarlo e gestirlo. L’unica nostra preoccupazione è stata quella di assicurare una riflessione sul tipo di formazione richiesta agli insegnanti. Ciò che conta per noi è che abbiano una competenza specifica oltre la loro formazione di base, che potrà essere di vario tipo: storia, filosofia, teologia.
L’accordo Stato-Chiesa ci pare importante anche perché ha posto un punto fermo su una questione “tormentata”. Condivide?
Certo. Ma mi lasci aggiungere una cosa. Le nostre iniziali resistenze hanno portato a individuare una proposta di qualità superiore rispetto alle precedenti quando si parlava genericamente di un’alternanza settimanale tra istruzione religiosa e storia delle religioni o di moduli. Ora invece tutto è più chiaro: un’ora alla settimana per tutti, per 36 ore annue. L’aver chiesto qualcosa di più ha portato a un risultato, ancora limitato magari, ma più soddisfacente per tutti.
Lei ci credeva a questo risultato? Le premesse non inducevano all’ottimismo.
C’è stata una maturazione da entrambe le parti. Come l’ultima apertura del Decs sulla qualifica dei docenti, ultimo ostacolo da superare.
Si avverte nella società un bisogno aumentato di spiritualità che non trova per forza riscontro nella pastorale cristiana. Forse perché scarseggiano i punti di riferimento? Quanto conta, a questo proposto, la crisi di vocazione?
Crisi delle vocazioni è un’espressione che va precisata. Contiamo i preti e le suore e constatiamo che effettivamente ce ne sono meno di prima. Non riflettiamo però abbastanza storicamente sul termine di confronto, ossia, un periodo tra ’800 e inizio ’900, che è stato eccezionale per molti versi rispetto a tempi precedenti. Un numero elevato di preti, distribuito sul territorio nella forma delle parrocchie che conosciamo, è un fenomeno tutto sommato abbastanza tardivo. In ogni caso, successivo all’applicazione effettiva del Concilio di Trento, qui da noi soprattutto per opera di San Carlo Borromeo. Di per sé, se ci paragoniamo ad altre situazioni nel mondo o ad altre epoche la quantità dei ministri ordinati potrebbe anche sembrare alta. Quando diciamo crisi pensiamo spesso più alle strutture da tenere in piedi che non alla qualità della proposta evangelica. E poi bisogna assolutamente approfondire il termine “vocazione”, che non riguarda solo il clero o la vita religiosa.
Nel senso di un’interpretazione estensiva?
Certo. Tendiamo a una chiave di lettura, come dire, molto aziendale, come se il punto di partenza fosse ragionare sul personale necessario per portare avanti le nostre istituzioni, le nostre strutture. In ambito ecclesiale, questo ragionamento non va bene. Il punto di partenza, a mio avviso, sono le comunità da radunare attorno all’annuncio del Vangelo e la celebrazione dell’eucaristia e non le sedi parrocchiali da coprire o le chiese, come si usa dire, da officiare. Ebbene il passaggio che stiamo vivendo potrebbe essere occasione per riflettere più a fondo su quali sono le vocazioni necessarie per l’edificazione di una comunità cristiana, di un’ecclesia, ossia, di una con-vocazione. In essa c’è la vocazione del prete, ma ve ne sono altre. Come quella di chi serve la parola attraverso la catechesi, di chi lavora nell’ambito della carità, della formazione e dell’impegno sociale. Insomma il nocciolo è la vocazione del cristiano in quanto tale e la cultura umana nella quale essa può fiorire.
A questo proposito si chiede alla Chiesa di aprire maggiormente al mondo laico.
Più che di mondo laico, parlerei di battezzati consapevoli della propria chiamata specifica alla missione. Aprire ai laici non può voler dire soltanto delegare loro aspetti legati all’attività del prete, perché è ancora un ragionamento aziendale. Bisogna riflettere su tutte le vocazioni, laicale compresa, ma dentro una riflessione volta a comprendere sempre più profondamente che cosa significhi davvero essere cristiani.
Il che vorrebbe dire allargare i portatori di valori oggi delegati alla missione del prete? O anche, fare più comunità con l’altro?
Non si può dire che manchi attenzione all’altro nelle nostre comunità. Trovo molto impegno da parte di molti, che si mettono a disposizione per tanti servizi di questo tipo. Credo che bisogna continuare a lavorare affinché questa generosità sia espressione di una consapevolezza che trae linfa dal Vangelo, dall’incontro personale con il Signore. Da questo punto di vista, c’è senz’altro ancora molto cammino da fare.
Eppure, non sempre oggi la comunità, ticinese compresa, sa rispondere con prontezza al messaggio evangelico. Già il fare comunità invece che isolarsi nel proprio mondo...
Forse bisogna conoscere un po’ di più quello che avviene nelle nostre comunità parrocchiali. In quasi tutte lo spazio della parrocchia è il luogo dove tante persone, sole o in difficoltà, trovano qualcuno che le accoglie e le ascolta e non è sempre il prete. Si tende facilmente a passare sopra questo ruolo, come dire, di offerta sociale della comunità cristiana. Essa ha un impatto forte, anche se spesso nascosto, sul nostro territorio. Dovesse mancare questo impegno silenzioso e quotidiano di tante persone cristianamente motivate, ce ne accorgeremmo. Viene dato per scontato, ma è un miracolo che si rinnova costantemente. Quante persone trovano forza nella loro fede celebrata nella comunità e sono fermento di coraggio e di dedizione nelle più svariate situazioni dell’umano.
Il suo ottimismo contrasta con chi considera questi tempi figli di “passioni tristi”…
Non chiudo gli occhi sui problemi reali e gravi della nostra epoca. Semplicemente, cerco di guardarla in maniera non schematica. Mi sembra di poterla vedere come un grande cantiere, dove ci sono segnali che qualcosa si sta costruendo, anche se molti elementi sconnessi fanno pensare a un crollo appena avvenuto. Un po’ a tutti i livelli, anche al di fuori dell’ambito ecclesiale, viviamo una realtà complessa, ricca di fermenti e contraddizioni. Il nostro compito è abitarla, con discernimento e intelligenza.
Quali sono oggi le sfide, a suo giudizio, di questo cantone?
Trovare spazi dove ci si possa incontrare e ascoltare senza passare subito alla polemica, alla contrapposizione e alla denigrazione dell’altro. Sono venuti a mancare i livelli intermedi della vita sociale e politica. Una volta i partiti erano ambiti di lavoro: ci si incontrava, si parlava, c’era scambio. Adesso, grazie anche ai mezzi di comunicazione molto rapidi, si tende a mettere in piazza tutte le proprie emozioni e considerazioni. Questo non contribuisce a creare un ambiente dove si pensa a un bene comune, che magari potrebbe non coincidere esattamente con quello immaginato dal singolo individuo.
C’è fragilità politica?
Non sta a me dare giudizi sulla politica. Dico soltanto che la mancanza d’interiorità, l’inaridimento del pensiero, la diminuzione della possibilità di coltivare relazioni intense e profonde non possono avere che un impatto negativo sulla qualità del dibattito politico, sociale e culturale del nostro tempo.
Forse si è persa la grammatica dell’ascolto, non c’è tempo appunto...
Dobbiamo senz’altro escogitare, e io sono abbastanza fiducioso che si possa farlo, delle pratiche buone di custodia dell’autenticamente umano dentro di noi. Ci sono segni positivi di chi, magari senza fare troppo rumore, si ribella con prassi umili e concrete a tutto ciò che pretende di rubargli la sua umanità più vera. Occorre elaborare una sorta di automedicazione, adattata alla nostra situazione, non per rivoltare il corso della storia, almeno inizialmente, ma per non farsi travolgere, per rimanervi in piedi e protagonisti per quanto possibile. Si devono trovare, per esempio, dei momenti che ci fanno stare ai margini della bufera per potervi rientrare con una parola più densa e incisiva.
Quali sono le priorità della diocesi?
La comunicazione nel nostro contesto rimane una preoccupazione viva. Abbiamo uno strumento che è il ‘Giornale del Popolo’, da sostenere e da fare evolvere in un contesto particolarmente difficile per tutti i quotidiani cartacei. Ma vi sono altri aspetti ancora più vitali, come il lavoro per giungere a una messa in rete delle parrocchie che ci permetta di trovare modalità di collaborazione per un servizio pastorale diverso. C’è la cura della formazione degli operatori pastorali per assicurare la qualità nella catechesi, nella diaconia, nella liturgia stessa. Ci sono dinamiche nuove da sviluppare con la Facoltà di teologia. Vorremmo avviare una formazione per operatori, non solo preti. Rafforzando la qualità della nostra presenza nel territorio.
Perché c’è comunque bisogno di maggior vitalità, non solo comunitaria?
Per accogliere le possibilità nuove che lo Spirito non cessa di suscitare anche oggi. Il peggior nemico di tutto questo è il senso di amarezza, di rassegnazione, di tristezza e di autocommiserazione. Se devo indicare uno degli aspetti più deleteri, in generale, che avvelenano l’atmosfera, ebbene questo è proprio la tendenza all’autocommiserazione. Il piangersi addosso. Un angolo dove è così comodo rifugiarsi e dove stiamo anche bene, perché non ci sporchiamo le mani e magari ci atteggiamo a profeti di un futuro catastrofico, per evitare il quale non stiamo muovendo neanche un dito.
Che Avvento deve essere?
Per i cristiani celebrare l’Avvento è sviluppare l’arte di stare nella storia, nel concreto, con lo sguardo aperto all’orizzonte di ciò che è ancora possibile a Dio. Non si tratta solo di tirare fuori le statuette del presepio per prepararci a una rievocazione nostalgica di un passato perduto. Ma una memoria di ciò che è accaduto, che si trasforma in speranza per il presente e il futuro.