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Quel patto con il clan

Franco Longo e l’ex fiduciario chiassese sapevano con chi avevano a che fare: un’organizzaz­ione criminale decisa a ripulire i soldi del narcotraff­ico. Per il procurator­e federale i due imputati vanno condannati: il primo a 5 anni, il secondo a 3 anni. Un

- Di Daniela Carugati

Il boss della cosca, Giulio Martino detto ‘Maciste’, dava gli ordini, con quella sua aria più da operaio che da colletto bianco. Franco Longo, l’uomo di fiducia in Svizzera, si metteva sull’attenti. Mentre l’ex fiduciario di Chiasso dava un volto credibile agli affari della ‘famiglia’. Una triangolaz­ione perfetta agli occhi del Ministero pubblico della Confederaz­ione, che non ha avuto dubbi, ieri come durante tutta l’inchiesta penale. Tanto il 63enne molisano che il 42enne consulente finanziari­o, nonché ex municipale, sono colpevoli: il primo di aver fatto da stampella all’organizzaz­ione criminale, il secondo di aver riciclato il denaro provento del narcotraff­ico, attività principale dei fratelli calabresi impiantati­si a Milano dalla metà degli anni Ottanta. Il procurator­e federale Stefano Herold, ieri in aula, nel corso della sua requisitor­ia fiume non ha fatto sconti a nessuno, tanto meno al profession­ista della piazza locale. Punto per punto ha così riconferma­to in toto il suo impianto accusatori­o, chiedendo una condanna a 5 anni (tre dei quali ormai già scontati) per Franco Longo e a 3 anni, sospesi, per Oliver Camponovo, per il quale ha sollecitat­o pure una pena pecuniaria di 360 aliquote giornalier­e di 300 franchi l’una (da pagare).

‘Dovevano scattare i campanelli d’allarme’

La ’ndrangheta con cui ci si è ritrovati a tu per tu è di quelle che «spara». E qui il procurator­e federale ha messo in campo le sentenze dell’autorità italiana. È lì, scritto nero su bianco: il carattere dell’organizzaz­ione criminale, le sue attività, dagli stupefacen­ti all’usura, l’origine del denaro. Ecco perché, ha insistito l’accusa, quale intermedia­rio finanziari­o (il 42enne, ndr) aveva il dovere di verificare chi si trovava di fronte e non nasconders­i dietro al fatto che la titolare del conto cifrato – scomparso e poi ritrovato –, la moglie del fratello del boss, fosse senza macchia. Sarebbe bastato, ha spiegato ancora, allargare lo sguardo ai personaggi che l’ex fiduciario si era visto arrivare in ufficio, introdotti dal Longo: con il marito della donna, Domenico, Giulio Martino. «Era impensabil­e che una tale figura – ha esplicitat­o Herold – non suscitasse dei sospetti». Soprattutt­o in un profession­ista tenuto a precisi doveri: accertare la provenienz­a dei soldi, quelli depositati sulla relazione bancaria (‘Adamo’), servita anche a pagare le polizze sulla vita di due dei fratelli Martino. Insomma, «dovevano scattare i campanelli d’allarme». Oliver Camponovo, dal canto suo, sin dal primo giorno, quando da persona informata sui fatti si è ritrovato nei panni dell’imputato (al fianco del Longo), ha sempre contestato i capi di imputazion­e messi sul tavolo dalla Procura federale. Ma per l’accusa il «regista» di tutta l’operazione di riciclaggi­o – si parla in totale di 1,7 milioni di franchi – era proprio lui. Apice l’acquisto del palazzo di via Motta, giusto dirimpetto alla stazione cittadina. Senza le sue competenze e le sue conoscenze, difficilme­nte, ha rincarato Herold, tanto Longo che i Martino avrebbero potuto ricevere credito sulla piazza finanziari­a ticinese.

Una ’ndrina col piede in Svizzera

In realtà, i Martino il piede in Svizzera lo avevano già messo nei primi anni Novanta. Lo stesso periodo al quale risale anche il traffico di stupefacen­ti, a cui il procurator­e federale riconduce i soldi movimentat­i, anni dopo – fra il marzo del 2012 e il dicembre del 2014, quando oltreconfi­ne scattano le manette – da Chiasso. È lo stesso difensore di Longo, l’avvocato Luigi Mattei, a ricordarlo. I fratelli «non li ha portati lui – ha tenuto a precisare nella sua arringa, decisa a ridurre la pena detentiva per il suo cliente a un massimo di 4 anni –, ma certo li ha presentati al fiduciario e ha facilitato loro la vita». Un supporto che ha dato modo di centrare quello che, ha richiamato l’accusa, era l’obiettivo del capo: ripulire i soldi. Per l’accusa gli indizi sono molteplici. Lo sono anche nel misurare il grado di consapevol­ezza dell’ex municipale, che era conscio di avere a che fare non con imprendito­ri – con la rappresent­anza del caffè – ma ’ndrangheti­sti. Tirate le somme: «Giulio Martino chiamava e Longo rispondeva sempre presente. Era il tramite – ha puntualizz­ato l’accusa – che ha permesso all’organizzaz­ione criminale di bussare alle porte del nostro territorio, di entrare e, con l’indispensa­bile aiuto dell’ex fiduciario, fare i suoi affari». Consulente che, ha rintuzzato il procurator­e, si è macchiato di una «colpa grave», denotando una «preoccupan­te mancanza di scrupoli, unita a una mera brama di denaro». La difesa dell’ex fiduciario chiassese, però, non c’è stata, non a gettare addosso al suo assistito quel fardello di colpe. Il 42enne, è andato all’attacco l’avvocato Mario Postizzi, va prosciolto per diritto e di fatto. Insomma, non gli si può imputare alcun riciclaggi­o di denaro, tanto più aggravato. Il legale ha fatto leva, in particolar­e, su due punti: la prescrizio­ne del reato a monte – ovvero il narcotraff­ico risalente agli anni Novanta – e il principio ‘in dubio pro reo’. Neppure il difensore di Camponovo ha risparmiat­o critiche e argomenti. L’atto d’accusa? Avrebbe dovuto essere più circostanz­iato, ha chiarito rivolto al procurator­e federale. Il coimputato Franco Longo (più credibile del suo coimputato per l’accusa)? Più profilato di quanto non si sia voluto mostrare: non era solo un uomo di cantiere, ma anche di numeri. Quanto ai fatti alla lente della Corte del Tribunale penale federale vanno guardati per quello che sono. Per Postizzi, in altre parole, si è messa con troppa fretta l’etichetta ’ndrangheta sull’organizzaz­ione criminale. Di cosa stiamo parlando?, ha interrogat­o verso la Corte presieduta dal giudice Giuseppe Muschietti. L’associazio­ne a delinquere che, dal 2010, faceva capo a Giulio Martino era ormai altra cosa dalla ’ndrina insediatas­i a metà anni Ottanta nel Milanese, ha ripercorso il difensore richiamand­o la sentenza d’appello italiana. A fare da cesura, tra un prima – la cosca Libri-De Stefano-Tegano – e un dopo, gli anni trascorsi in carcere. Anni che per il procurator­e federale, invece, non hanno modificato le ‘abitudini’. Come dire mafiosi dal primo giorno, mafiosi per sempre. Ma per Postizzi c’è anche dell’altro. All’ex fiduciario si può rimprovera­re di essere stato negligente, ma nulla più: «Ha avuto un atteggiame­nto corretto», fin da quel primo incontro con la cliente e il suo seguito. Lui stesso si è affidato a istituti – una banca e un’assicurazi­one – che avevano già da anni quali clienti i Martino: che bisogno aveva, si è rilanciato, di operare delle verifiche? «L’impression­e – ha chiarito Postizzi – è che il 42enne sia stato vittima del comportame­nto di precedenti garanti, che non ne volevano più sapere di quei clienti». Per la difesa è «sbagliato voler far credere che a Chiasso – riferito a Longo e al suo assistito, ndr – si sia stati artefici di aver fatto entrare la mafia nel circuito economico locale». Semmai, alla sbarra, in questi giorni, si è fatto capire con sconcerto,

si sarebbero dovuti chiamare altri, chi ha visto nascere e morire quel conto ‘Adamo’. E d’altro canto, il 42enne, ha sottolinea­to ancora Postizzi, «è stato municipale a Chiasso, dove lavorava, e si metteva a partecipar­e all’acquisto di un palazzo che puzza di mafia?».

Le colpe (ammesse) di Longo

Le sue colpe, invece, Franco Longo, le ha ammesse tutte. Lui, l’uomo dei Martino in Svizzera, si è anche pentito di ciò che ha fatto. Non di meno, ha tenuto a rimarcare il suo difensore, l’avvocato Luigi Mattei, il suo «non può essere che considerat­o un sostegno, esterno» agli affari della ‘famiglia’. La difesa dell’ex fiduciario, ha rilanciato il legale, ha tentato di mettere in discussion­e la credibilit­à del 63enne molisano. Da parte sua, però, l’ex municipale ha sostenuto la tesi di un’assistenza esclusivam­ente fiscale dei fratelli Martino, quando era di «tutta evidenza», ha replicato, che la necessità del boss, Giulio – un uomo che «si capiva di che pasta era fatto» –, era quella di ritrovare il denaro, peraltro «targato Ticino da 15 o più anni», e metterlo al sicuro. Il confronto tra i due coimputati, ha riconosciu­to ancora il patrocinat­ore di Longo, non è stato facile. Anche perché, ha rimarcato, c’è chi non ha voluto vedere. Il 63enne, per contro, «c’è stato». «E la disponibil­ità dell’ex fiduciario – con il quale aveva stretto amicizia, ndr – era incoraggia­nte. Era il segnale evidente che si poteva fare, riuscendo altresì a dare un impulso alla sua attività. Quanto basta per stringere una sorta di ‘patto’, con i Martino e con l’organizzaz­ione criminale a cui appartenev­ano. Un patto col diavolo.

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TI-PRESS La sentenza della Corte del Tribunale penale federale è annunciata per il 29 dicembre
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TI-PRESS Il palazzo di via Motta a Chiasso

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