Quel patto con il clan
Franco Longo e l’ex fiduciario chiassese sapevano con chi avevano a che fare: un’organizzazione criminale decisa a ripulire i soldi del narcotraffico. Per il procuratore federale i due imputati vanno condannati: il primo a 5 anni, il secondo a 3 anni. Un
Il boss della cosca, Giulio Martino detto ‘Maciste’, dava gli ordini, con quella sua aria più da operaio che da colletto bianco. Franco Longo, l’uomo di fiducia in Svizzera, si metteva sull’attenti. Mentre l’ex fiduciario di Chiasso dava un volto credibile agli affari della ‘famiglia’. Una triangolazione perfetta agli occhi del Ministero pubblico della Confederazione, che non ha avuto dubbi, ieri come durante tutta l’inchiesta penale. Tanto il 63enne molisano che il 42enne consulente finanziario, nonché ex municipale, sono colpevoli: il primo di aver fatto da stampella all’organizzazione criminale, il secondo di aver riciclato il denaro provento del narcotraffico, attività principale dei fratelli calabresi impiantatisi a Milano dalla metà degli anni Ottanta. Il procuratore federale Stefano Herold, ieri in aula, nel corso della sua requisitoria fiume non ha fatto sconti a nessuno, tanto meno al professionista della piazza locale. Punto per punto ha così riconfermato in toto il suo impianto accusatorio, chiedendo una condanna a 5 anni (tre dei quali ormai già scontati) per Franco Longo e a 3 anni, sospesi, per Oliver Camponovo, per il quale ha sollecitato pure una pena pecuniaria di 360 aliquote giornaliere di 300 franchi l’una (da pagare).
‘Dovevano scattare i campanelli d’allarme’
La ’ndrangheta con cui ci si è ritrovati a tu per tu è di quelle che «spara». E qui il procuratore federale ha messo in campo le sentenze dell’autorità italiana. È lì, scritto nero su bianco: il carattere dell’organizzazione criminale, le sue attività, dagli stupefacenti all’usura, l’origine del denaro. Ecco perché, ha insistito l’accusa, quale intermediario finanziario (il 42enne, ndr) aveva il dovere di verificare chi si trovava di fronte e non nascondersi dietro al fatto che la titolare del conto cifrato – scomparso e poi ritrovato –, la moglie del fratello del boss, fosse senza macchia. Sarebbe bastato, ha spiegato ancora, allargare lo sguardo ai personaggi che l’ex fiduciario si era visto arrivare in ufficio, introdotti dal Longo: con il marito della donna, Domenico, Giulio Martino. «Era impensabile che una tale figura – ha esplicitato Herold – non suscitasse dei sospetti». Soprattutto in un professionista tenuto a precisi doveri: accertare la provenienza dei soldi, quelli depositati sulla relazione bancaria (‘Adamo’), servita anche a pagare le polizze sulla vita di due dei fratelli Martino. Insomma, «dovevano scattare i campanelli d’allarme». Oliver Camponovo, dal canto suo, sin dal primo giorno, quando da persona informata sui fatti si è ritrovato nei panni dell’imputato (al fianco del Longo), ha sempre contestato i capi di imputazione messi sul tavolo dalla Procura federale. Ma per l’accusa il «regista» di tutta l’operazione di riciclaggio – si parla in totale di 1,7 milioni di franchi – era proprio lui. Apice l’acquisto del palazzo di via Motta, giusto dirimpetto alla stazione cittadina. Senza le sue competenze e le sue conoscenze, difficilmente, ha rincarato Herold, tanto Longo che i Martino avrebbero potuto ricevere credito sulla piazza finanziaria ticinese.
Una ’ndrina col piede in Svizzera
In realtà, i Martino il piede in Svizzera lo avevano già messo nei primi anni Novanta. Lo stesso periodo al quale risale anche il traffico di stupefacenti, a cui il procuratore federale riconduce i soldi movimentati, anni dopo – fra il marzo del 2012 e il dicembre del 2014, quando oltreconfine scattano le manette – da Chiasso. È lo stesso difensore di Longo, l’avvocato Luigi Mattei, a ricordarlo. I fratelli «non li ha portati lui – ha tenuto a precisare nella sua arringa, decisa a ridurre la pena detentiva per il suo cliente a un massimo di 4 anni –, ma certo li ha presentati al fiduciario e ha facilitato loro la vita». Un supporto che ha dato modo di centrare quello che, ha richiamato l’accusa, era l’obiettivo del capo: ripulire i soldi. Per l’accusa gli indizi sono molteplici. Lo sono anche nel misurare il grado di consapevolezza dell’ex municipale, che era conscio di avere a che fare non con imprenditori – con la rappresentanza del caffè – ma ’ndranghetisti. Tirate le somme: «Giulio Martino chiamava e Longo rispondeva sempre presente. Era il tramite – ha puntualizzato l’accusa – che ha permesso all’organizzazione criminale di bussare alle porte del nostro territorio, di entrare e, con l’indispensabile aiuto dell’ex fiduciario, fare i suoi affari». Consulente che, ha rintuzzato il procuratore, si è macchiato di una «colpa grave», denotando una «preoccupante mancanza di scrupoli, unita a una mera brama di denaro». La difesa dell’ex fiduciario chiassese, però, non c’è stata, non a gettare addosso al suo assistito quel fardello di colpe. Il 42enne, è andato all’attacco l’avvocato Mario Postizzi, va prosciolto per diritto e di fatto. Insomma, non gli si può imputare alcun riciclaggio di denaro, tanto più aggravato. Il legale ha fatto leva, in particolare, su due punti: la prescrizione del reato a monte – ovvero il narcotraffico risalente agli anni Novanta – e il principio ‘in dubio pro reo’. Neppure il difensore di Camponovo ha risparmiato critiche e argomenti. L’atto d’accusa? Avrebbe dovuto essere più circostanziato, ha chiarito rivolto al procuratore federale. Il coimputato Franco Longo (più credibile del suo coimputato per l’accusa)? Più profilato di quanto non si sia voluto mostrare: non era solo un uomo di cantiere, ma anche di numeri. Quanto ai fatti alla lente della Corte del Tribunale penale federale vanno guardati per quello che sono. Per Postizzi, in altre parole, si è messa con troppa fretta l’etichetta ’ndrangheta sull’organizzazione criminale. Di cosa stiamo parlando?, ha interrogato verso la Corte presieduta dal giudice Giuseppe Muschietti. L’associazione a delinquere che, dal 2010, faceva capo a Giulio Martino era ormai altra cosa dalla ’ndrina insediatasi a metà anni Ottanta nel Milanese, ha ripercorso il difensore richiamando la sentenza d’appello italiana. A fare da cesura, tra un prima – la cosca Libri-De Stefano-Tegano – e un dopo, gli anni trascorsi in carcere. Anni che per il procuratore federale, invece, non hanno modificato le ‘abitudini’. Come dire mafiosi dal primo giorno, mafiosi per sempre. Ma per Postizzi c’è anche dell’altro. All’ex fiduciario si può rimproverare di essere stato negligente, ma nulla più: «Ha avuto un atteggiamento corretto», fin da quel primo incontro con la cliente e il suo seguito. Lui stesso si è affidato a istituti – una banca e un’assicurazione – che avevano già da anni quali clienti i Martino: che bisogno aveva, si è rilanciato, di operare delle verifiche? «L’impressione – ha chiarito Postizzi – è che il 42enne sia stato vittima del comportamento di precedenti garanti, che non ne volevano più sapere di quei clienti». Per la difesa è «sbagliato voler far credere che a Chiasso – riferito a Longo e al suo assistito, ndr – si sia stati artefici di aver fatto entrare la mafia nel circuito economico locale». Semmai, alla sbarra, in questi giorni, si è fatto capire con sconcerto,
si sarebbero dovuti chiamare altri, chi ha visto nascere e morire quel conto ‘Adamo’. E d’altro canto, il 42enne, ha sottolineato ancora Postizzi, «è stato municipale a Chiasso, dove lavorava, e si metteva a partecipare all’acquisto di un palazzo che puzza di mafia?».
Le colpe (ammesse) di Longo
Le sue colpe, invece, Franco Longo, le ha ammesse tutte. Lui, l’uomo dei Martino in Svizzera, si è anche pentito di ciò che ha fatto. Non di meno, ha tenuto a rimarcare il suo difensore, l’avvocato Luigi Mattei, il suo «non può essere che considerato un sostegno, esterno» agli affari della ‘famiglia’. La difesa dell’ex fiduciario, ha rilanciato il legale, ha tentato di mettere in discussione la credibilità del 63enne molisano. Da parte sua, però, l’ex municipale ha sostenuto la tesi di un’assistenza esclusivamente fiscale dei fratelli Martino, quando era di «tutta evidenza», ha replicato, che la necessità del boss, Giulio – un uomo che «si capiva di che pasta era fatto» –, era quella di ritrovare il denaro, peraltro «targato Ticino da 15 o più anni», e metterlo al sicuro. Il confronto tra i due coimputati, ha riconosciuto ancora il patrocinatore di Longo, non è stato facile. Anche perché, ha rimarcato, c’è chi non ha voluto vedere. Il 63enne, per contro, «c’è stato». «E la disponibilità dell’ex fiduciario – con il quale aveva stretto amicizia, ndr – era incoraggiante. Era il segnale evidente che si poteva fare, riuscendo altresì a dare un impulso alla sua attività. Quanto basta per stringere una sorta di ‘patto’, con i Martino e con l’organizzazione criminale a cui appartenevano. Un patto col diavolo.