La diversità è ricchezza
Quindici passeggiate per esplorare, con lo sguardo poetico di Alberto Nessi, le valli e le località della Svizzera italiana, pensate come quartieri di una ‘città diffusa’ alla quale le edizioni Unicopli di Milano hanno deciso di dedicare un volume della c
L’ultima tappa del mio viaggio è la Valle di Poschiavo; lontana, discosta, quasi esotica per un ticinese, a differenza della Mesolcina:
Terra lontana, mia terra lontana, ogni ricordo, il più dolce e il più triste,
è a te consacrato, al tuo cielo, ai tuoi monti, al fiume, al lago.
Felice Menghini, ‘Terra lontana’, in ‘Umili cose’,
I.E.T., Bellinzona 1938
Poschiavo, dove sarà? In Svizzera? Come si fa ad andarci? Da ragazzo facevo fatica a trovarlo sulla carta geografica. Ricordo che a Monteceneri, nell’elenco delle località segnalate per lo stato delle strade in inverno, sentivo fare il nome di Diavolezza: ma non sapevo dove diavolo fosse, immaginavo una baita a casa di dio, sotto cumuli di neve. Passavo da Diavolezza un settembre di qualche anno fa con il miracoloso trenino rosso della Ferrovia Retica, quando fece irruzione nella carrozza un diavolerio di turisti anglosassoni over sessantacinque, tutti muniti di cappellini, banane e occhiali da sole. Ma, soprattutto, di diabolici apparecchi fotografici. Erano loro i padroni. Tutto un puntare contro il finestrino, alla ricerca dell’inquadratura giusta, cercando di lasciar fuori campo i piloni della ferrovia. Tutti seduti a guardare; ma improvvisamente, quando scorgevano il ghiacciaio e il laghetto, scattavano in piedi come soldatini e puntavano l’arma, eccitati. Non si lasciavano avvolgere dal paesaggio settembrino: premevano il bottoncino. L’apparecchio guarda per loro. Vedono il paesaggio attraverso un piccolo schermo luminoso: oggi il paesaggio esiste in quanto fotografato. Fotografare non è più un’esperienza emozionante ma un rito sociale, un tranquillante, un’aspirazione alla normalità, un desiderio di sicurezza. È la ricerca di una conferma: sì, sono io, io nella società conto poco ma ora mi trovo in un posto di grande nome e divento un creatore di souvenirs. Patrocinato dall’Unesco, sto vedendo una cosa straordinaria, me lo dicono il prospetto in carta patinata proposto dall’agenzia e il sito MySwitzerland.com. Ed è tutto qui, nella mia tasca, basta far scorrere le immagini premendo sulla freccetta.
Per Poschiavo, lascio la parola a Marta Morazzoni, che ha avuto uno sguardo più attento e acuto del mio: È piccolo, poco massacrato dall’edilizia delle seconde case che tormenta tanta montagna, e in più ci sono due o tre cose che lo distinguono e gli danno un tono nobile: la prima è la così detta Via dei Palazzi, che mi ha stupito per il nome e la causa del nome. Non sono palazzi che la fiancheggiano ma ville quasi anglosassoni, che si stagliano nette e discrete a contenere il fronte compatto e anonimo delle case di paese. Non c’è lusso in quello che si vede in questa strada vecchia, leggermente a margine di Poschiavo, ma una distinzione connaturata. Il signore che ha voluto queste ville, presumo per sé e per le immediate derivazioni della sua famiglia, aveva un’idea solida di casa, solida e non orpellata. (…) Curiosamente la strada si incunea tra le ville e i loro rispettivi giardini, per accedere ai quali si scende una breve scalinata a piccolo ventaglio (più o meno tutte le ville sono simili) e si attraversa la via su cui si aprono i cancelletti bassi degli orti: un’anomalia che fa della strada una parte integrante delle case, quasi una liberalità concessa ai passanti per vedere più da vicino la sobria eleganza dei Palazzi, anche se più facilmente sarà stata una modifica successiva del piano regolatore a generare questa contaminazione. Non incontriamo nessuno che ne esca, il che rafforza il tono solenne e tacito di questa architettura, legato alla lapide che, al principio della via, ricorda il nome del fondatore e ideatore di questo progetto. (Marta Morazzoni, ‘La luce del mondo’, in ‘Tre scrittrici nei Grigioni’, Dadò, Locarno 2005)
Voglio concludere le mie ricognizioni con parole in cui mi riconosco quando parlano di “un’elveticità che non sia solo consolatoria”, di “sforzo di voler vivere associati” e di diversità come ricchezza. L’impressione di sentirsi diversi dev’essere di quelle che attecchiscono subito – data qualche modesta condizione iniziale –, come accade con qualsiasi malaerba in un prato giovane: e benché l’infanzia sia propensa a sentirsi a casa propria ovunque (anche se il tutto che la sfiora inavvertitamente la modella per sempre), accade a volte che le finestre e le imposte di questa casa vagante, sbattano violente e inopinatamente minacciose, fino a sigillarsi, chiudendosi, sulla penombra carcerata e inquieta di un dubbio che non potrebbe finire mai. Anche in Valle di Poschiavo, dove il mio dialetto era quello degli altri, e i giochi uguali, e le prime tenerezze e le prime paure e le esitanti fantasie egualmente condivise, bastava dire sono nato al di là di quelle sbarre biancorosse (proprio al di là, guarda, di quel greppo laggiù dove si vede la chiesetta romanica di Santa Perpetua, gemella di quella che sta alta sopra Poschiavo, di San Romedio: e il paese si chiama Villa Tirano, per vedere di scatto accendersi negli occhi dei compagni una fiammella di perplessità, crearsi un’invisibile e quasi impercettibile cortina di distanza, la sensazione di un gelo. (…) Gli anni corrono in fretta, e da più di vent’anni ho rivarcato la frontiera tra Italia e Svizzera: e la mia modesta odissea, su una carta geografica, è la frazione breve del giro di un compasso che mi fa nascere ai piedi del Bernina, per vivere poi ai piedi del Gottardo: la marginalità è dunque scomparsa? Non credo di poterlo dire. L’occhio degli amici ticinesi, dei conoscenti o dei colleghi troppo spesso ricorda il distacco degli sguardi dei compagni dei luoghi diversi che ho abitato bambino o ragazzo, una specie d’inconscio rifiuto tribale: non sei veramente dei nostri. (…) Così, la vita di uno svizzero che nasce in un Cantone come quello dei Grigioni dove l’italiano è la lingua di minoranze sparse per valli disarticolate, che vive in una Confederazione dove l’intera Svizzera italiana è solo una minoranza (anche se politicamente imprescindibile), e che scegliendo di scrivere ha per sbocco vitale la più vasta nazione vicina (e che se parla la sua lingua, è pur sempre una repubblica straniera), si complica all’infinito. Sul versante di una collocazione esistenziale incerta, nella tua stessa patria, ami il tuo paese ma non segni confini alla lingua che ami almeno altrettanto, poiché è la sola arma che ti consente di “essere”, se si può essere qualcosa e per qualcosa: e anche per gli “altri”, ai quali cerchi di parlare, ma dai quali a volte è così difficile farsi ascoltare. Superare questa frontiera quotidiana, resta il sogno e il desiderio, forte di una fedeltà che sopravvive a ogni dichiarato attacco, o a ogni guizzare sfuggente dello sguardo, di chi non accetta di metterti francamente gli occhi negli occhi. L’impresa può essere condannata a molte forme di scacco, ma penso che vada affrontata. Fa parte del mestiere di vivere, è parte della mia condizione, è un frammento esiguo (ma anche un dato diffuso, con qualche variante, in ogni angolo dell’intera Confederazione) dell’accettazione problematica – ma che ritengo vada perseguita a oltranza – di un’elveticità che non sia solo consolatoria: per chi cerca di pensare, per chi si sforza di colloquiare con i propri simili. (Grytzko Mascioni, ‘Tra bandiere e frontiere’ in ‘Scrittori del Grigioni Italiano’, Dadò 1998)
Capovolgere la marginalità, suggerisce Mascioni. Abolire la frontiera ed “essere” anche per gli altri: con la lingua, la sola arma che ci consente di essere. Essere simili e insieme diversi, com’è diversa la parola letteraria che ho cercato di scoprire, in queste pagine nate camminando: parola nata da luoghi conosciuti ma sempre nuovi, quando si ha la pazienza di guardarli e di leggere, o rileggere, gli scrittori e i poeti che questi luoghi hanno visto prima di noi, insieme a noi. Ci penso stasera, mentre torno da Lugano con il Tilo: quando d’improvviso entra nello scompartimento una ragazza dai capelli turchini e dagli occhi neri come la notte. Si siede di fronte a me e cominciamo a parlare. Mi racconta un po’ della sua storia: è scappata di casa a quindici anni e ora vive in un istituto per minorenni. Si tinge i capelli di azzurro per differenziarsi dalla folla triste, mi dice. La differenza, appunto. La diversità di cui parla Mascioni, qui non causata dalla frontiera ma dal modo di essere. Questa ragazzina dai capelli azzurri e col cerchietto al naso – un’apparizione inaspettata, simile a quelle che talvolta hanno arricchito la mia scorribanda letteraria – rappresenta, ai miei occhi, i diversi, rifiutati dai più, che dicono: non sei dei nostri. Rappresenta tutti quelli che fuggono dall’intolleranza, dal rifiuto tribale, dalla violenza, familiare o sociale: quelli che non vediamo o facciamo finta di non vedere, quelli nei quali non sappiamo identificarci. Ecco, ora la fata turchina si toglie un cerchietto dal naso e mi dice che non fa male: le sue giovani ferite diventano, fino alla prossima fermata del Tilo, erbe che attecchiscono nel mio non più giovane prato.