Barcellona all’ultimo voto
Le elezioni regionali di oggi in Catalogna ripropongono le divisioni che gli eventi degli ultimi mesi hanno trasformato in spaccature: nei confronti di Madrid (che ha revocato l’autonomia) e all’interno della società catalana stessa. L’esito del voto non pare destinato a ridare un governo stabile alla Generalitat per riprendere il confronto politico con lo Stato.
Barcellona – Non sono passati neppure due mesi dalla proclamazione della Repubblica, e la Catalogna torna a votare in elezioni regionali “imposte” da Madrid. I vertici della dirigenza separatista sono in prigione o sono riparati all’estero; e se anche il risultato elettorale dovesse consentire di nuovo la formazione di una maggioranza indipendentista (ipotesi ritenuta credibile stando agli ultimi sondaggi), nulla cambierebbe: la Spagna resta indivisibile e il suo governo ha dimostrato di non essere disposto a derogare su questo punto. Dopo l’applicazione dell’articolo 155, il commissariamento di fatto delle istituzioni autonome, e l’arresto dei dirigenti catalani, la propaganda sovranista ha puntato su queste elezioni come una occasione di rivincita, un plebiscito che sbugiardi Madrid. Nulla indica che sarà questo l’esito. Tra i candidati separatisti al parlamento regionale, diciotto sono formalmente incriminati dalla giustizia spagnola per “ribellione” (rischiano fino a 30 anni), tre, fra i quali il vicepresidente destituito e leader di Erc Oriol Junqueras, restano tuttora in carcere, mentre altri tre, compreso Carles Puigdemont, il presidente deposto della Generalitat e capolista di JxCat, restano al riparo in Belgio. Come dire che un Puigdemont pur rieletto non potrebbe ripresentarsi in patria se non per finire in galera. Significativamente, Erc (Esquerra Republicana de Catalunya), probabile lista più votata secondo l’ultimo sondaggio con 37-38 deputati – davanti a Ciudadanos con 31-32, e JxCat (Junts per Catalunya, 26-27 –, ha chiuso la campagna con una riunione davanti al carcere di Madrid dove è detenuto il suo leader. La tensione generata dalla repressione madrilena e dalle contraddizioni stesse del fronte separatista è venuta alla luce negli scorci finali di campagna. In una intervista telefonica dal carcere alla radio Rac1 – per la quale è stato privato dell’ora d’aria – Junqueras ha graffiato a distanza Puigdemont, spiegando di essere detenuto perché “io non mi na-
scondo”. Il President destituito ha replicato dal Belgio che “io non mi sono mosso”. Polemiche intestine a parte, la sola traccia comune è l’incertezza sull’esito del voto. Gli ultimi sondaggi davano i separatisti davanti nelle intenzioni di voto con 67-70 seggi su 135, contro 56-59 agli unionisti. Ma a poche ore dall’apertura delle urne un terzo dell’elettorato si dichiarava ancora indeciso. Se arriverà prima la lista unionista di Ciudadanos – i sondaggi non lo escludono – la capolista Ines Arrimadas, che ha capitalizzato sulla rinascita del nazionalismo spagnolo anche in Catalogna, dovrà tentare di formare un esecutivo fragile e di minoranza con socialisti e popolari. Difficilmente, tuttavia, i socialisti di Miguel Iceta accetteranno di fare da spalla a un partito di ispirazione neoliberale e fortemente nazionalista; mentre i popolari pagheranno pesantemente lo scotto di essere interpretati come i soldatini di Mariano Rajoy in Catalogna. In questo caso, la lista Catalunya en Comú-Podem (la variante catalana di Podemos) figurerebbe da fragile e inaffidabile ago della bilancia. A certificare, infine, la sfiducia reciproca con cui i catalani arrivano al voto, la richiesta degli indipendentisti di avere 37mila osservatori ai 2680 seggi, mentre l’organizzazione della società civile Anc ha organizzato un sistema parallelo per ricontare tutti i voti.