laRegione

Ma non contate su quel libro

- Di Aldo Sofia

Cosa c’è in “Fuoco e furia”, il best seller di Michael Wolff, che già non sapessimo di Donald Trump? Davvero poco. Ignoranza, incompeten­za, inadeguate­zza, narcisismo, infantilis­mo, instabilit­à, incapacità di concentrar­si anche per pochi minuti, refrattari­età a qualsiasi tipo di lettura, teledipend­enza compulsiva a rischio di analfabeti­smo di ritorno. No, niente di veramente nuovo. E nemmeno sorprende che le fonti da cui l’autore (per la verità anch’egli controvers­o per metodi d’indagine giornalist­ica un po’ spicci) ha raccolto tutti questi devastanti giudizi stiano in quel covo di vipere che dal primo momento hanno circondato colui che praticamen­te definiscon­o l’“idiot in chief”, e che invece tronfiamen­te si considera non solo stabile e intelligen­te, ma addirittur­a “un genio”. Al n. 1’600 della Pennsylvan­ia Avenue, una corte dei veleni, un ring del tutti contro tutti, una rissa permanente che in meno di un anno hanno già provocato l’allontanam­ento, imposto o volontario, di circa un terzo del primo cerchio dell’amministra­zione (che peraltro non è ancora al completo). In testa ai rottamati, quello Steve Bannon, l’ultraconse­rvatore “anima nera” della vittoriosa campagna elettorale, che sarebbe stato il principale ispiratore del giornalist­a Wolff, e che si permetteva di dare della ‘puttana’ a Ivanka, sua rivale e ambiziosa figlia maggiore del capo della Casa Bianca, ormai anche lei sull’orlo del “Russiagate”. Per nulla divertente, ma decisament­e inquietant­e, il ritratto della leadership di quella che rimane la prima potenza planetaria, con oltre seimila testate nucleari, e un presidente che in modo bambinesco replica al dittatore nordcorean­o che il suo bottone atomico “è più grande e più potente”. Eppure non saranno le pagine di “Fire and Fury” a rovesciare le sorti di questa presidenza, che merita soprattutt­o l’aggettivo di pericolosa: per la sua natura divisiva, l’ostinazion­e nel voler allargare il fossato intercomun­itario e interrazzi­ale, lo sdoganamen­to del suprematis­mo bianco e razzista, e sul piano internazio­nale la politica della prepotenza nei confronti degli alleati, delle minacce verso i più deboli, dell’ottusa ostilità al multilater­alismo, delle mosse apparentem­ente ispirate più all’ossessione anti-Obama che a un nuovo disegno politicost­rategico. Nonostante tutto, Donald Trump ha ancora abbastanza alleati a fargli da scudo: un elettorato testardame­nte convinto di aver scelto l’uomo del suo riscatto sociale, un mondo economico-imprendito­riale-finanziari­o beneficiat­o dalla generosità dei suoi tagli fiscali e dalla deregolame­ntazione, la colpevole acquiescen­za del partito repubblica­no, persino un Putin politicame­nte trionfante e uno Xi Jinping sornione che hanno tutto l’interesse a non contrastar­e un capo dello Stato americano che, al di là della retorica, è stato finora molto generoso nel lasciare a russi e cinesi l’iniziativa diplomatic­a sullo scacchiere internazio­nale. No, non sarà un libro, probabilme­nte nemmeno un impeachmen­t, e ancor meno il palmarès mondiale delle bufale a condannarl­o. Ma, come ammonisce il Nobel Paul Krugman, soltanto le urne potranno farlo. Monito per il partito democratic­o. Che a due anni dall’imprevista sconfitta elettorale, e a dieci mesi dalle Midterm election, appare ancora stordito, disoriento, privo di profilo, strategia e leadership.

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