Va’ dove ti porta il cuore
Dieci anni dopo ‘Rocia’ è tornato, per dare una mano agli élite dell’Ambrì. ‘Sentivo che era tempo per qualcosa di nuovo’.
Piotta – Non l’immaginava neppure lui, ma alla fine è tornato. Alla Valascia, su quella stessa panchina che Rostislav Cada, ‘Rocia’ per gli amici, aveva conosciuto una prima volta negli anni Novanta. Quand’era arrivato agli élite dell’Ambrì transitando da Ascona. Da lì alla panchina della prima squadra, prima in qualità di assistente, poi di allenatore-capo, il passo è stato breve. A quella parentesi, cinque anni dopo ne seguì un’altra. E ora, dieci anni più tardi, rieccolo qui. Ed è la terza volta. «No, sinceramente non l’avrei mai detto – spiega, l’oggi sessantatreenne tecnico nato a Brno, in Repubblica Ceca –. Perché sono tornato? Perché l’anno scorso, al termine della stagione, ho cominciato a riflettere su cos’avrei ancora potuto fare nel mondo dell’hockey. Ho lavorato molto ai massimi livelli in Russia (Avangard Omsk, ndr), Cechia (Liberec, ndr) e Slovacchia (Bratislava e Kosice, ndr), e sono stati anni impegnativi. Così mi sono detto che forse era tempo di intraprendere qualcosa di nuovo. Magari ripartendo dal basso, per trasmettere ad altri la mia esperienza e le mie conoscenze. Un conto è allenare dei professionisti, un altro è farlo con i giovani. Con i ragazzi devi saper sfruttare il loro potenziale ma pure la loro grande passione. Ben sapendo, però, che è ancora tutto da costruire». Così, quando è arrivata la proposta dell’Ambrì, non ti è stato difficile accettare. «In verità avevo anche qualche altra possibilità, ma nessuna mi aveva convinto. Era come se percepissi che la migliore tra le opportunità dovesse ancora arrivare. Poi, appunto, si è presentato l’Ambrì, che mi ha proposto di guidare gli élite sino a fine stagione. Sono una persona realista, che reagisce quando è il momento di farlo. È il cuore, per così dire, a dirmi cosa debbo fare. E il cuore mi ha detto che quella proposta l’avrei dovuta accettare».
E il tuo cuore sa già se questa sarà davvero solo una parentesi sino a fine stagione? «È presto per dirlo, no? Dobbiamo ancora fare il primo passo, e io devo cominciare a concretizzare il mio lavoro. Insomma, facciamo una cosa alla volta». Di sicuro, però, in questi mesi sai bene cosa ti aspetta. Alla guida di un gruppo in grande difficoltà, visto che gli élite dell’Ambrì sono ultimi in classifica con 11 punti in 29 partite, staccati di ben 14 lunghezze dai penultimi, cioè il Lugano. Come dire che, pescando alla Valascia e alla Resega, i Ticino Rockets non hanno fatto un gran favore ai due
serbatoi più rinomati del cantone a livello juniores... «Quando si parla di giovani, la prima cosa su cui ci si deve focalizzare è la preparazione di quei ragazzi al professionismo. Quindi sì, ciò che è stato realizzato a Biasca è senza dubbio la soluzione migliore. Poi, è ovvio, le squadre che hanno perso quei giocatori un po’ si sono indebolite, ma la priorità dev’essere quella della formazione. Senza dimenticare che in futuro quegli stessi ragazzi torneranno per dare un mano, permettendo di sfruttarne le qualità nel frattempo acquisite». Il primo impatto con i tuoi ragazzi com’è stato? «Non posso
dire se la prima impressione è quella giusta, ma di sicuro al mio arrivo ho visto tutto l’impegno e la passione che questi giovani intendono metterci. E questa è la base fondamentale per poter cambiare le cose». Può la passione sopperire al talento? «Ciò che mi posso permettere di dire è che nell’hockey conta il carattere. Se un giocatore ha il talento ma non il carattere, è solo questione di tempo prima che si perda per strada. Al contrario, un ragazzo che a una certa età non è ancora pronto fisicamente o tatticamente ma ha grande voglia di lavorare, potrebbe riuscire a compiere dei miracoli. È di questo tipo di giocatori che ogni squadra ha bisogno. Infatti, senza certi onesti lavoratori anche i giocatori più forti varrebbero di meno». È questo il messaggio che hai lanciato ai tuoi giocatori la prima volta in cui li hai incontrati? «In verità – sorride – in quell’occasione c’erano parecchi dirigenti e il mio discorso è stato piuttosto conciso». Vale a dire? «Ho illustrato soltanto una primissima idea, che però dal mio punto di vista è fondamentale. E cioè che se perdiamo le partite non è per merito dei nostri avversari, ma unicamente per colpa nostra».