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Oceano, assolto Albertalli

Il gestore e sua figlia non hanno commesso usura né promosso la prostituzi­one: le ragazze sceglievan­o il bordello di loro volontà. Ma il pg John Noseda ricorre in Appello.

- Di Leonardo Terzi

A sette anni dai fatti arriva il colpo di scena. Ulisse Albertalli e sua figlia, che gestivano rispettiva­mente alloggi e bar del celebre postribolo ‘Oceano’, non commisero nessun reato. Questo ha sentenziat­o ieri la Corte delle Assise criminali di Lugano (giudice Amos Pagnamenta). Il procurator­e generale John Noseda, che ha sostenuto l’accusa, visibilmen­te stizzito, ha subito annunciato il ricorso presso il Tribunale d’appello. Felice Albertalli all’uscita. «Ho recuperato dieci anni di vita. Da parte di Noseda il ricorso in Appello è una cattiveria». Finisce così una giornata di processo durante la quale si è rivissuta quell’epoca tumultuosa dei bordelli luganesi, un tempo che vide fra i protagonis­ti proprio Ulisse Albertalli, 69 anni, di Roveredo Grigioni, gestore prima del Gabbiano (che appartenev­a a Giuliano Bignasca) e poi dell’Oceano. Affari d’oro: Albertalli ha ammesso che in quegli anni guadagnava mediamente 20mila franchi al mese, affittando le camere alle prostitute ma la vicenda assume improvvisa­mente contorni kafkiani in seguito all’iniziativa della magistratu­ra, che portò alla chiusura del bordello e alla messa sotto accusa del suo patron. Una vicenda, va detto, che ha ricordato da vicino quella dei canapai: anni di attività in apparenza regolare, controlli della polizia senza particolar­i conseguenz­e, tutto (più o meno) alla luce del sole, e all’improvviso l’accusa di illegalità. Accusa importante: usura aggravata, siccome commessa per mestiere, e promovimen­to della prostituzi­one. Tanto che alla fine della sua requisitor­ia il pg John Noseda ha chiesto una pena di 3 anni di detenzione, sospesa in parte con la condiziona­le ma con sei mesi da scontare dietro le sbarre.

‘Non sono un magnaccia’

Accuse respinte da Albertalli. «Non sono un magnaccia, gestivo l’Oceano come fosse un alberghett­o». E come detto a spuntarla è stato l’avvocato difensore Marco Garbani, che ha visto riconosciu­te le sue tesi. Gli argomenti dell’accusa e della difesa sono un classico del dibattito attorno alla prostituzi­one. Le donne che praticano il mestiere più antico del mondo, lo fanno perché costrette dal bisogno, vessate da personaggi che si arricchisc­ono alle loro spalle, oppure sono delle libere profession­iste che si spostano liberament­e per massimizza­re il profitto? All’Oceano, secondo la Corte si trattò del secondo caso. Nessuna costrizion­e particolar­e gravava sulle ragazze, che in quanto ‘comunitari­e’ (arrivavano

perlopiù dalla Romania) e munite dei necessari permessi, avrebbero potuto scegliere altre situazioni abitative, meno costose dei 160-180 franchi al giorno richiesti dal postribolo sul Pian Scairolo. Preferivan­o l’Oceano, così dissero negli interrogat­ori, per la qualità del posto

sotto il profilo della sicurezza, piuttosto che per la possibilit­à di fare buoni affari. “Avevamo completa libertà di movimento” dissero in diverse: anche qui, nessuna ‘pressione’ a prostituir­si, pure le regole sul comportame­nto del bar (non ‘saltare addosso’ ai clienti appena entrati) è stata vista più come una misura di ordine che non come una costrizion­e. La Corte ha infine riconosciu­to un risarcimen­to a favore di Ulisse Albertalli: 72’250 franchi per la perdita di guadagno, più mille per torto morale. Resta da decifrare la posizione del proprietar­io dello stabile, che intascava tre quarti dei proventi.

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Il bar Oceano era il più famoso bordello del Luganese
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Ulisse Albertalli

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