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Scuola senza appello

Ipus di Chiasso, un docente spiega come è stato contattato: ‘All’inizio sembrava una cosa seria’ ‘Tutti i docenti che hanno fatto lezione nell’Istituto avevano dei curricula impression­anti. Il caso è scoppiato perché non venivano versati gli stipendi’.

- Di Jacopo Scarinci

«Della cifra pattuita, almeno io, non ho ricevuto un centesimo». A confermare quale fosse la prassi all’Istituto privato universita­rio svizzero (Ipus) di Chiasso, dichiarato fallito nel settembre 2016 dalla pretura di Mendrisio Sud, decisione in seguito confermata dal Tribunale federale, è Gino Petri, fisioterap­ista toscano che esercita la profession­e dal 1992 e assunto dall’Ipus per tenere dei corsi. Che non sono mai stati pagati. «Il contratto firmato ovviamente prevedeva un compenso – spiega Petri – ma prevedeva anche che io dovessi sborsare di tasca mia per il viaggio, il pernottame­nto e il cibo». Comunque sia, all’inizio, il tutto sembrava gestito seriamente. «Io e i miei colleghi siamo stati contattati attraverso persone che conoscevan­o i nostri lavori in ambito medico e di docenza. Io sono andato a Chiasso, con il mio curriculum, e dopo il colloquio ho aspettato la risposta. Ero contento di poter lavorare in Svizzera». Un lavoro che, però, non è durato a lungo. «Sono stato poco tempo all’Ipus. Ho fatto alcuni corsi e qualche stage, niente di che». Quello che è interessan­te scoprire è perché, almeno dal suo punto di vista, queste università all’estero, che spesso non hanno alcun riconoscim­ento, siano così appettite dagli studenti italiani. La risposta che ci dà il nostro interlocut­ore è la stessa già affidata alla ‘Regione’ da Sandro Rusconi, ex direttore della Divisione della cultura (vedi edizione dell’8 febbraio): la questione del numero chiuso. «Le persone partono dall’Italia per questo motivo – racconta il fisioterap­ista – ovvero i corsi a numero chiuso per i quali vengono fatti i bandi d’accesso. Facciamo un esempio: mettiamo che in tutta la Regione Lombardia siano messi a disposizio­ne 300 posti per fisioterap­ia e che si candidino in 2’000. Gli altri 1’700 che fanno?». Semplice, provano altre strade. Che però Petri tiene a ribadire «non sono escamotage. I piani di studio, in Svizzera come nell’Est Europa o in Spagna (Paesi dove queste scuole sono più diffuse, ndr), vengono preparati seguendo quelli delle università italiane. La parte carente in tutto il discorso è quella relativa al tirocinio». Sì, perché se in Italia ci sono corsi universita­ri da 180 crediti formativi che vedono almeno la metà di questi ottenuti tramite il tirocinio, la stessa cosa non si può dire delle scuole private estere. «Da noi il tirocinio è parte essenziale, fondamenta­le. Inizia già dal primo anno. Spesso capita che al rientro da questi corsi all’estero, il Ministero responsabi­le prima di riconoscer­e il diploma chieda di completare questa pratica». Insomma, anche se portati a compimento, questi sono studi abbastanza traballant­i. Ma, nonostante questo, in conclusion­e il dottor Petri tiene a ribadire come «per quello che riguarda la parte positiva, per quello che ho potuto vedere, tutti i docenti contattati avevano dei curricula impression­anti, alcuni erano addirittur­a primari. Il problema è che nessuno è stato pagato». E chiamalo problema.

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TI-PRESS Il Tribunale federale ha dichiarato fallita la scuola nel maggio 2017

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