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Intervista a Toni Ricciardi, storico delle migrazioni

Intervista a Toni Ricciardi, che racconta la storia dell’esodo degli italiani in Svizzera Nel libro dedicato, lo storico traccia passato e presente migratori: ‘Testimonia­re è un dovere civile e morale per combattere la xenofobia’

- Di Clara Storti

«La storia serve a ricostruir­e il divenire dei momenti. Oggi siamo ciò che siamo stati. Il problema è la facile tendenza delle persone – per paura, difficoltà economiche… – a dimenticar­e; a voler dimenticar­e. La prima generazion­e di migranti italiani (quella delle baracche, del ricongiung­imento familiare, dei figli clandestin­i) ha il dovere civile e morale di testimonia­re quella storia. Così facendo si crea lo strumento più potente ed efficace contro la xenofobia». Iniziamo dalla fine; dalle parole conclusive della nostra chiacchier­ata con Toni Ricciardi, autore dell’interessan­te e recente “Breve storia dell’emigrazion­e italiana in Svizzera. Dall’esodo di massa alle nuove mobilità” (Donzelli, 2018). Le parole di Ricciardi, e potremmo chiudere qui l’articolo, sono la risposta alla domanda immediata e scontata (però cardinale), perché ancora nel 2018 c’è la necessità di raccontare storie di emigrazion­e? Non cadiamo nel passatismo? Toni Ricciardi, di origini irpine con un passato e un presente da emigrante, è storico delle migrazioni presso l’Università di Ginevra. È autore di numerose pubblicazi­oni, fra cui “Morire a Mattmark. L’ultima tragedia dell’emigrazion­e italiana” (2015; gli è valso il premio ‘La valigia di cartone’); “Marcinelle, 1956. Quando la vita valeva meno del carbone” (2016). E, recentemen­te, “Breve storia dell’emigrazion­e italiana in Svizzera (…)”, volume che dalla fine dell’Ottocento – «l’epoca dei grandi trafori» – alla contempora­neità traccia la storia degli immigrati nella Confederaz­ione (casa “della terza comunità italiana nel mondo”), passando per i momenti di cesura del secondo dopoguerra e degli anni Novanta, arrivando agli ultimi decenni. Il fil rouge dipanato pagina dopo pagina è l’evoluzione della percezione del migrante da parte del paese ospite.

Che cosa cambia dalla migrazione di ieri a quella di oggi?

Paradossal­mente, cambia tutto e non cambia nulla. Tutto, perché le distanze

si sono accorciate. La presenza nei luoghi, di partenza ma anche d’arrivo, è diversa. Mobilità, abbattimen­to di distanze e costi consentono di spostarsi facilmente: si sono create le condizioni per un pendolaris­mo a lungo raggio. Una persona quindi riesce a vivere due luoghi con maggiore frequenza. Parimenti, molte cose sono rimaste uguali: 50 anni fa si arrivava in Svizzera col passaporto turistico e le istituzion­i acconsenti­vano. Si entrava da irregolari e poi si sanava la posizione nel momento in cui si trovava lavoro. Ci sono state discussion­i ancora negli anni 80 su questa vicenda, su come affrontarl­a. Ieri, c’erano i passaporti turistici; oggi, c’è la libera circolazio­ne, accordi siglati nel 2002. Ciò che accomuna entrambe le esperienze è il concetto di mancanza.

Che cosa intende?

Nell’esperienza migratoria di ieri e oggi, anche se ci sono affermazio­ne profession­ale, economica, sociale, nasce sempre un sentimento di mancanza. Questa, forse, è la connotazio­ne archetipic­a del migrante; elemento che accomuna il migrante di ieri con quello di oggi.

Per quel che concerne l’accettazio­ne sociale, che cos’è cambiato?

Ieri come oggi, la questione determinan­te è la condizione di partenza. Anche 50 anni fa, coloro che avevano una formazione profession­ale o un’istruzione elevate incontrava­no meno difficoltà, almeno sulla carta. Anche oggi, al di là delle singolarit­à biografich­e, più strumenti formativi si possiedono, più “facilità” si avrà nel percorso migratorio. Nel caso della Svizzera, poi, sarebbe necessario fare dei distinguo…

Perché?

Storicamen­te, le condizioni erano diverse per gli italiani che migravano in Ticino e quelli che raggiungev­ano cantoni germanofon­i. Nella stessa Svizzera esistevano migrazioni e presenze italiane diversific­ate, date dal contesto e dalle politiche migratorie. Negli ultimi decenni, c’è stato un cambiament­o dovuto alla normalizza­zione con il modello della Svizzera tedesca. Questo perché oggi la dicotomia in Svizzera non è più data dalle aree linguistic­he, ma dagli assetti socioecono­mici: i luoghi urbani tendono sempre più a mostrare apertura nei confronti di mobilità e arrivo dell’altro; mentre quelli rurali – che vivono indub- biamente difficoltà socioecono­miche maggiori e paure più profonde – tendono invece alla chiusura.

Dalla sua bibliograf­ia profession­ale, è lampante la passione per il fenomeno migratorio. Come mai?

In parte per ragioni biografich­e. Sono un migrante di seconda generazion­e, ma anche di prima. Mi spiego meglio: fino al ’92 sono stato un migrante di seconda generazion­e, perché arrivato in Svizzera all’età di 8 mesi. Sono rimasto qui fino ai 4 anni come bambino clandestin­o, storia che accomuna migliaia di bambini di quel periodo. Una volta rientrato in Italia, il mio percorso formativo, liceo e università, l’ho tracciato a Napoli. Nel 2010, ho avuto la fortuna di vincere una borsa post-doc all’Archivio sociale di Zurigo, grazie alla quale mi sono affiliato all’Università di Ginevra, dove tuttora vivo e lavoro; condizione che mi definisce migrante di prima generazion­e.

La prima esperienza è stata quindi determinan­te…

Indubbiame­nte, è quella che più mi ha segnato negli anni di vita più delicati. È stata un’esperienza importante per conoscere e comprender­e le dinamiche migratorie e costruire ragionamen­ti di carattere scientific­o, aiutandomi nel mio lavoro.

E quella che sta vivendo?

Mi dà la possibilit­à di crescere, soprattutt­o, trasforman­do la mia passione e il mio percorso di vita in una profession­e. Il cammino accademico mi ha dato anche la possibilit­à di superare alcune difficoltà personali, intime che sono lo strascico della prima esperienza migratoria.

Nel clima sociopolit­ico di questi anni, stiamo vivendo un momento in cui chiusura ed esclusione sono sempre più ordinarie; voler dimenticar­e il passato provoca una corsa inesorabil­e verso l’ineluttabi­le cancellazi­one della memoria collettiva. Rileggere la storia, o meglio, le storie di migrazione (e non solo) è vitale, perché conoscendo e comprenden­do le dinamiche passate si può scongiurar­e la ripetizion­e di errori (e orrori). Chiudiamo, citando una bella tavola del nuovo fumetto di Zerocalcar­e: “(…) Hai capito perché studiamo?”; “(…) Perché sennò ci scordiamo.”; “(…) E che succede se ci scordiamo?”; “Non sappiamo più riconoscer­e le cose feroci. Per noi e per gli altri”.

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KEYSTONE Uno scatto storico di lavoratori italiani stagionali. Nel riquadro, Ricciardi Due volte migrante

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