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Cinquant’anni di Dialoghi

Mezzo secolo di vita per il bimestrale di ‘riflession­e cristiana’. Morresi: ‘Una sfida ancora attuale?’

- Di Aldo Bertagni

Una piccola-grande rivista, nata sull’onda del Sessantott­o, che ha cercato e cerca di animare il dibattito culturale in Canton Ticino

Avevano iniziato a trovarsi in tempi complicati, era il 1954, almeno per loro giovanetti e titubanti, ma solo nei modi. Perché le idee erano già chiare allora, quando la “rivoluzion­e dei fiori” era là da venire e il vento conciliare non aveva ancora dispiegato tutta la propria forza. Papa Roncalli salirà al soglio di Pietro quattro anni dopo, nel 1958. Eppure quei ragazzi ticinesi discutevan­o e si confrontav­ano su un mondo che non condividev­ano – come spesso capita ai giovani – anche perché la fede, imposta dall’alto, non bastava più. Lo stesso gruppo di giovanotti e giovanette quattordic­i anni dopo, nel 1968, decise di tradurre la riflession­e in articoli redazional­i e nacqe ‘Dialoghi, rivista bimestrale di riflession­e cristiana’. Era già iniziato il Concilio Vaticano II. C’è da 50 anni, quasi un record per una pubblicazi­one esplicitam­ente cattolica. Da quasi vent’anni (iniziò nel febbraio 1999) la dirige Enrico Morresi, giornalist­a di lungo corso oggi in pensione e brillante ottantenne che ha deciso di passare il timone col numero 250, quello prossimo nelle case. Lo sostituira­nno Alberto Bondolfi e Margherita Snider Noseda. Morresi c’era già dai primi battiti d’ala, dalle prime riunioni degli anni Sessanta, quando tutto sembrava rivoltarsi.

Papa Francesco, in un’intervista uscita sabato scorso su ‘La Civiltà Cattolica’, afferma che la Chiesa oggi ha bisogno di discernime­nto, ovvero di distinguer­e con consapevol­ezza non passiva. Che effetto fa sentire che la più alta gerarchia ecclesiast­ica riconosce la soggettivi­tà del giudizio spirituale?

La nostra rivista è fatta da laici e i laici hanno sempre sofferto la presunzion­e del clero di avere in mano la soluzione di tutti i problemi. Il mio primo direttore al ‘Corriere del Ticino’, Giovanni Regazzoni, diceva: I prevat ’gan l’ipse dixit, che significa: chiudono la discussion­e citando Aristotele. La grande vicinanza che sentiamo noi con papa Bergoglio è la sua grande prossimità con la realtà, che nasce dall’esigenza della misericord­ia (alla quale noi stessi non siamo sempre stati fedeli, questo va riconosciu­to). Che però è un dato essenziale della testimonia­nza di Cristo, il quale non faceva teorie ma era vicino alle persone. Nella Chiesa cattolica, come in altre chiese, si è dato

sempre più ascolto alla classe che aveva studiato.

Questa consapevol­ezza che tu citi [con Enrico ci diamo del tu, come s’usa fra colleghi, ndr] venne fuori col Concilio...

Ricordo che prima del Concilio si parlava di “partecipaz­ione dei laici all’apostolato gerarchico della Chiesa”. Mi pare fosse una definizion­e di Pio XII, e noi si pensava che fosse già gran cosa poter svolgere una specie di supplenza. In verità, il popolo di Dio sono tutti i battezzati e il corpo ecclesiast­ico è al servizio di questa base. Il Concilio ha superato le nostre attese, ricuperand­o questo principio, ma non è stato facile digerirlo da parte dell’establishm­ent ecclesiast­ico. L’esigenza del discernime­nto, ossia l’essere vicini al caso concreto, vissuto, è essenziale come misura di rispetto di questa pari dignità e il fatto che questo papa lo sottolinei per noi è una grande consolazio­ne.

Dopo cinquant’anni...

La Chiesa cattolica, come tutte le chiese, ha una storia talmente lunga e meriti culturali talmente grandi che pesano su ogni proposta di cambiament­o.

Un patrimonio pesante.

Infatti, e bisogna tenerne conto quando si giudica la velocità dei cambiament­i auspicati. Faccio un piccolo esempio. Sarebbe normale che quando non è disponibil­e un prete sia un laico, una donna, ad accompagna­re un funerale. “Ma io voglio un prete”, direbbero le famiglie. Non è necessario, rispondo io, perché non si tratta di assolvere dai peccati o di celebrare l’eucarestia, ma solo di accompagna­re il rito con una preghiera. Ma le abitudini sono difficili da superare. Questo per dire la pesantezza di certe tradizioni, che ‘Dialoghi’ ha cercato di smuovere, con molta fatica e deboli risultati.

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Un numero della rivista

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