laRegione

Il mio miglior amico non esiste

- di Claudio Lo Russo

Ricordo ancora con fastidio misto a pena, ad ogni rientro a scuola, le canoniche domande da tema scritto o da conversazi­one in lingua: “Dove sei stato/Che cosa hai fatto durante le vacanze?”. Impossibil­e, se non eri un frequentat­ore di Lenzerheid­e o Santa Margherita, sfuggire l’inquisizio­ne con un “In nessun posto/Niente”; o un sincero, legittimo, verace “Ca... miei”. Ritorna con simile noia l’immagine di un prof. liceale che, chino sul registro, ogni anno infliggeva il supplizio dell’appello in cui specificar­e nome/cognome/profession­e del padre. Vietato svicolare con ironia: “Impollinat­ore, incantator­e di serpenti, mozzo di Caronte”. Riemergono con la loro punta di spietatezz­a molesta pure i temi ricorrenti sul miglior amico, soprattutt­o se un giorno hai scoperto che il tuo miglior amico aveva scritto di un altro migliore di te; o se ti sei visto designato, con chissà quale imbarazzo, come il miglior amico di qualcuno della cui esistenza ti eri a malapena accorto. È lunga la lista delle piccole ingiustizi­e, umiliazion­i o forme d’insensibil­ità che ti può riservare la scuola. Leggere oggi che negli Usa e in Gran Bretagna ci si pone il problema d’includere ogni alunno, sfuggendo i riferiment­i al miglior amico, non sembra deprecabil­e. Ma l’idea di proibirne il termine, o addirittur­a di dissuadere i bimbi dall’intrattene­re rapporti esclusivi, mi pare cadere dall’alto come un’altra insensibil­e, paranoicam­ente buonista, prevaricaz­ione adulta sul loro mondo.

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