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Storie di migranti, di ieri e di oggi

Ne abbiamo parlato con Toni Ricciardi, storico delle migrazioni, che in città ha incontrato i suoi connaziona­li

- Di Daniela Carugati

Dall’Accordo italo-svizzero del 1948 sono passati 70 anni. Il vissuto dei migranti di ieri e dello storico Toni Ricciardi ci aiutano a capire l’oggi, a cavallo di un confine ‘anomalo’.

«L’Italia è una Repubblica fondata sull’emigrazion­e». Detta così può sembrare una dichiarazi­one forte. Ma pronunciat­a da Toni Ricciardi, storico delle migrazioni all’Università di Ginevra, non è certo una provocazio­ne. E neppure vuole esserlo. Quanti gli si sono fatti torno torno lì alla sala del Carlino, a Chiasso, non hanno bisogno di farselo spiegare. Lo sanno e basta. Pure loro sono stati emigranti; la maggior parte dall’Irpinia, come Franco, il titolare del ritrovo, come la famiglia dello stesso Ricciardi. Madre operaia, padre muratore, è arrivato in Svizzera, a Baar (Canton Zugo), nel 1978, quando aveva solo 8 mesi ed era uno dei tanti bambini clandestin­i. Ricordarlo oggi, nel 2018, e a Chiasso non è un caso: 70 anni orsono, infatti, Italia e Svizzera firmavano l’Accordo d’emigrazion­e. «E la cittadina di confine è un posto simbolo come pochi altri», ci fa notare Ricciardi. Non si può dimenticar­e che circa la metà delle persone partite dall’Italia dal secondo dopoguerra in poi, appresso la valigia di cartone, sia approdata nel nostro Paese. E questa a sud era una delle porte d’ingresso. «Ecco perché ho insistito per venire qui, dove ho anche dei legami d’affetto». Con i suoi connaziona­li Ricciardi è venuto a parlare di politica (visti i tempi). E di argomenti non ne mancano: in fondo hanno in comune lo stesso vissuto, che i più preferisco­no non raccontare. «Dalla mia ho forse la voglia di non nasconderl­o e la fortuna, rispetto a tanti altri, di poterlo rendere pubblico». Soprattutt­o adesso che è tornato in Svizzera da ricercator­e. «Io sono riuscito a trasformar­e questo percorso biografico, questa passione in una profession­e. Certo mi è costato e mi costa sempre – ammette –: ogni qualvolta analizzo qualcosa che ha a che fare con l’emigrazion­e in generale e poi ne scrivo nei miei libri, ho alcuni passaggi che devo scrivere due o tre volte: l’impatto diretto è troppo duro. Ho dovuto fare uno sforzo, e non so se ci sono riuscito, forse non ci riuscirò mai ad analizzare la questione con il dovuto distacco». Con il ‘Made in Italy’, in particolar­e dagli anni Ottanta, come lei ci insegna nei suoi saggi –l’ultimo, ‘Breve storia dell’emigrazion­e italiana in Svizzera. Dall’esodo di massa alle nuove mobilità’, Donzelli –, la percezione dell’italiano in Svizzera è mutata. «Sono stati i migranti a fare la storia, inconsapev­olmente, per Chiasso, per la Svizzera e per il Paese che hanno lasciato».

‘Tra il non più e il non ancora’

L’esperienza ticinese è diversa da quella d’Oltregotta­rdo. Qui ci si è ormai lasciato tutto alle spalle? «Storicamen­te è ciclico: qualcuno viene sostituito da qualcun altro. Gli albanesi in Italia sono stati sostituiti da altri, e a loro volta sostituiro­no i marocchini. In Svizzera gli italiani con la guerra dei Balcani sono stati sostituiti dagli slavi. E oggi questo percorso prosegue. Gli slavi paradossal­mente sono stati sostituiti dai frontalier­i – richiama Ricciardi –. Qual è il problema? Le dinamiche non sono dinamiche di contrariet­à ‘etnica’, ma vanno lette in una scala più ampia: maggiori sono le condizioni di difficoltà e maggiore è la contrappos­izione, la crescita di paura e quindi additare l’altro. Chiasso è l’emblema di questa situazione, è la frontiera anomala per eccellenza di questo Paese. Il punto per questa cittadina, ma in generale per il Sottocener­i e il Ticino, è che è rimasta ancorata a una storia tra il non più e il non ancora. È come se non avesse agganciato il treno della riformulaz­ione industrial­e di questo Paese, identifica­bile con lo Swatch. Sembra non aver seguito questa scia. Così a Chiasso hai Corso San Gottardo e a 100 metri via Odescalchi: sono un po’ le contraddiz­ioni. Il palazzo della Fernet Branca probabilme­nte è l’emblema di una storia che era e che non c’è più». I rapporti al confine, in effetti, si sono ribaltati. «Ci si chiede come riconverti­re il fatto che prima erano gli italiani a venire a Chiasso e ora sono i ticinesi ad andare a Como? È nella complessit­à, nello sguardo lungo, a vasi comunicant­i che bisogna ragionare e affrontare i problemi», suggerisce lo storico. Ma Chiasso fatica a ritrovare la propria identità. «Ma Chiasso cos’è? Un pezzo di Svizzera, di Ticino o è la frontiera estrema dell’area vasta di Milano? Io non ho la risposta, ma credo che siano tanti di questi elementi da tenere in consideraz­ione, se no non ne esci».

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Tra compaesani

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