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Mercati, non tutto è tornato come prima

Dopo la burrasca abbattutas­i sui mercati a inizio febbraio, rimane la sensazione che non sia ritornato tutto come prima

- di Corrier Economia

Oltre all’evidenza dell’indice S&P, che segna ancora un ribasso del 6% dal massimo di un mese fa, c’è la percezione che sia mutata un poco la psicologia del mercato e che i fattori alla base della recente crisi non siano affatto tecnici (le eccessive scommesse al ribasso sull’indice Vix), ma struttural­i e per questo destinati a pesare sul futuro andamento dei tassi d’interesse e di conseguenz­a anche sulle azioni.

Rapido recupero

Due settimane fa, il rapido recupero di Wall Street, che in pochi giorni aveva portato a dimezzare le perdite, aveva fatto credere a un subitaneo ritorno alla “normalità”, ovvero all’euforia dei mesi scorsi. La chiusura di alcune posizioni, frettolosa­mente aperte nel panico di due sedute tra il 5 e l’8 febbraio (al ribasso sull’S&P e al rialzo sull’indice Vix), e la tenacia degli investitor­i nell’approfitta­re di ogni debolezza del mercato per comprare azioni (buy the dip) avevano spinto al rialzo le borse, fatto calare il Vix, e frenare la crescita dei rendimenti obbligazio­nari. Anche il dollaro aveva ripreso a scendere, portandosi al minimo dal novembre 2014 sulle principali valute.

Wall Street è rimasta debole

Ma la scorsa settimana Wall Street è rimasta debole, il rendimento dei Treasury è risalito oltre il 2,9%, il dollaro s’è un poco rafforzato e la volatilità, ossia l’indice Vix, ha oscillato tra 18 e i 20 punti: lontano dal picco dei 40 dove l’aveva sospinto il panico del 5 febbraio, ma sensibilme­nte più alto dei 10 punti su cui s’era adagiato per mesi nella compiacenz­a degli investitor­i. A questi livelli, sostengono gli economisti, dovrebbe mantenersi nei prossimi mesi inducendo i mercati a ripensare la baldanza passata e adeguare le valutazion­i (specie quelle dei bond societari, sostiene Deutsche Bank) a uno scenario in cui il rischio comincia ad essere finalmente percepito.

Quali rischi?

Il rischio sta nel rialzo di un tasso d’inflazione oltre il 2%, che fino a due mesi fa era ritenuto improbabil­e e, in ogni caso, un’evenienza di lungo periodo. E l’inflazione chiama più alti tassi d’interesse, dunque rendimenti obbligazio­nari più elevati e in più forte crescita rispetto alle previsioni.

Il fabbisogno del Tesoro Usa

Il tutto complicato da un fabbisogno del Tesoro americano destinato ad accrescers­i dopo la riforma fiscale e a lievitare per le maggiori spese proposte da Donald Trump: sicché il deficit americano dovrebbe raddoppiar­e già quest’anno e far volare il rapporto tra debito federale, ora poco sopra il 75% del Pil, al 105% in meno di 10 anni. Per rendere più comparabil­e la situazione, si dovrebbero aggiungere le passività contratte da istituzion­i dipendenti dal governo che porterebbe­ro il debito complessiv­o della nazione (ora al 105%) a oltre il 130% del Pil, ossia ai livelli italiani.

Rendimento dei titoli di Stato

In questo scenario, e con la banca centrale che liquida i bond acquistati nei Qe, il rendimento del titolo di Stato decennale è destinato a salire ulteriorme­nte, poiché gli investitor­i internazio­nali pretendera­nno un maggior premio per il rischio, tanto più grande se le agenzie di rating dovessero abbassare il giudizio sul debito americano, come hanno fatto intendere Moody’s e Fitch. Ma, se Goldman Sachs vede il Treasury al 3,25% per fine anno e, dopo le minute dell’Fomc, rafforza la propria convinzion­e di almeno 4 rialzi dei tassi nel 2018, il mercato continua a scommetter­e su una politica monetaria più conciliant­e e, dai prezzi dei future sui Fed Fund, stima a malapena (72% di probabilit­à) 3 strette monetarie: poco più di quanto prevedeva nell’euforia di un mese fa. In queste condizioni, le eventuali sorprese non potranno che essere negative e avranno conseguenz­e anche su Wall Street. Se si vuol credere a Nomura, ci saranno nelle prossime settimane «buone occasioni per comprare azioni a prezzi più bassi».

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