‘Braccia, cervelli? No, chiamiamole solo persone’
Ogni storia è diversa eppure uguale. Non si dimentica il passato. E neppure si vuole essere dimenticati. Tra chi osa dare voce al proprio vissuto, qualcuno teme che figli e nipoti diano un taglio netto alle loro radici. Per chi ha voluto incontrare Toni Ricciardi al Carlino quello con il paese natale è l’unico vero legame rimasto. Ci avvicina un signore, orgoglioso di declinare le sue origini: «Io sono di Nusco», ci dice. “Dove l’Irpinia sembra la Svizzera”, si legge sul portale de ‘I Borghi più belli d’Italia’. E lui rivendica la sua ‘svizzeritudine’, anche perché da noi è arrivato che ancora non aveva fatto i 17 anni: braccia fra altre braccia. Chissà perché i migranti si identificano sempre con parti del corpo – ieri erano le braccia a basso costo, oggi sono i cervelli (magari in fuga) – e non con la persona tutta intera? «La difficoltà che noi abbiamo è anche linguistica – ci spiega Ricciardi –. Le parole pesano, mai come adesso in una fase di difficoltà e di paure. Alimentare le paure, del resto, è lo strumento più facile in mano al potere. Ora, se noi cambiassimo la narrazione, modificassimo i termini: invece di chiamarli migranti, immigrati, extracomunitari, africani, neri, slavi o turchi, iniziassimo a chiamarli persone, ridefiniremmo il quadro». Lei lo ha vissuto sulla sua pelle. Che memoria ha della sua infanzia nascosta? «La memoria diretta è quasi inesistente, ho dei flash, avevo 4 anni. È più nei racconti di mia madre e negli anni successivi. Quello che rammento è tutta la fase da bambino a ragazzino, fino al 1992 quando siamo ripartiti. Ricordo ancora le forme di discriminazione e anche velata precarietà nel vivere la quotidianità in alcuni momenti. Una cosa che mi è rimasta è che avverti costantemente una sorta di mancanza: manca sempre qualcosa, nonostante tu ti possa sentire integrato. Io ero sempre stato etichettato come il bambino eccessivamente vivace, per il vissuto e il modo d’essere allora in parte non ancora accettato. Guardandolo dal punto di vista del percorso personale, era una sorta di ‘diminutio’ il fatto che venissi additato come quello vivace nel contesto della Svizzera interna degli anni 80». Storicamente, invece, stava già cambiando qualcosa.