Peccato d’omissione e etica di responsabilità
Ricordo come, a cavallo tra gli anni 60 e 70 del secolo scorso, è emersa con forza la questione religiosa dei peccati d’omissione e quella laica dell’etica di responsabilità. Fino ad allora le autorità civili e religiose ci chiedevano conto delle azioni cattive commesse contro gli altri e/o contro sé stessi (per esempio il suicidio veniva fortemente sanzionato). Era un mondo nel quale si giudicava persino il recondito pensiero cattivo o le parole offensive dette, ma non si teneva in sufficiente considerazione la disattenzione, né il silenzio colpevole e nemmeno le omissioni. Ma, frutto della consapevolezza che il guardare in un’altra direzione poteva essere altrettanto irresponsabile come il commettere il reato, abbiamo assistito a dei cambiamenti nei giudizi: per esempio, abbiamo visto inserire nella liturgia del perdono il peccato d’omissione (“ho molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni”). E anche il pensiero laico ha affrontato la critica all’etica dell’intenzione (quando cioè la buona intenzione ti salvava dalla colpa, “se non c’era dolo”) opponendole l’etica di responsabilità: devi rispondere non solo di quanto hai fatto, ma anche di quanto non hai fatto anche se era il tuo dovere, venendo meno al tuo ruolo e alle tue responsabilità. Lo dico perché non occorre stupirsi e tanto meno strapparsi le vesti se il popolo ticinese guarda con diffidenza alle prese di posizione ufficiali in favore di enti parastatali quali la Posta o la Rsi, quando dall’alto, invece, sembra mancare la consapevolezza e nessuno si assume la responsabilità morale, prima che politica, per il mancato concorso nell’assegnazione dei servizi di sicurezza per gli asilanti, o per la mancata richiesta di approvazione delle indennità dei consiglieri di Stato.
Alejandro Avilés, Monte Carasso