Sergio Cavadini ci racconta il suo Sessantotto
L’occupazione dell’aula 20 alla Magistrale, nel Sessantotto. Ce la racconta Sergio Cavadini
I fatti internazionali, certo, ma soprattutto regole e controlli rigidi che impedivano agli studenti ticinesi di vivere la loro gioventù. Questo e altro portò gli studenti dell’ex Magistrale alla ‘rivolta’. La prima in Svizzera di quel tipo. Le riflessioni del portavoce della protesta, cinquant’anni dopo. Cosa volevano, cosa contestavano e cosa ottennero.
“La scuola siamo noi”. L’eco degli studenti riecheggia ancora, se si tende bene l’orecchia, nel chiosco dell’ex Magistrale di Locarno. Ma quel 9 marzo 1968 – ei due giorni a seguire – fu davvero tutta un’altra storia. Anzi, la Storia. «Se ci penso, non ci fu un motivo vero per scatenare la nostra protesta. Certo eravamo stanchi di tutte quelle regole autoritarie» ricorda
Sergio Cavadini, ventenne all’epoca “dei fatti” e prossimo al diploma. «Li compivo proprio il giorno dopo» sorride il nostro interlocutore. Furono festeggiamenti particolari, ci viene da commentare. «Beh, senz’altro». L’occupazione dell’aula 20, cinquant’anni dopo. La prima ribellione studentesca svizzera che agitò non poco l’allora rigida e rassicurante società ticinese, classe politica in testa. Che subito non comprese. “Vi sono diaboliche e delinquenziali interferenze esterne che agiscono con la complicità di una esigua minoranza all’interno, Attorno ai convitti circolano gli agenti provocatori...” ebbe a dire Bixio Celio, direttore dell’allora Dipartimento della pubblica educazione, alcuni mesi dopo in Gran Consiglio (fonte Mauro Stanga, autore di un lavoro di mémoire sul ’68 in Ticino). E proprio le condizioni vissute dagli studenti nei due convitti (maschile e femminile) furono forse la scintilla della rivolta.
Come mai Sergio Cavadini proprio in quel momento? Perché in marzo?
Non credo vi sia stato un legame con i fatti internazionali, che pure già si erano manifestati in alcune realtà del mondo. Quanto successo cinquant’anni fa in Ticino fu la sintesi, per quanto locale, di un disagio. Si stava evidenziando una protesta generazionale che mai era stata così vistosa e anche violenta.
Perché proprio alla Magistrale, secondo lei, e non altrove?
Credo perché la Magistrale era l’unico istituto che, per chi lo frequentava, dava la possibilità già a vent’anni d’iniziare un lavoro. Chi andava al liceo aveva altre mire, con altro tipo d’apprendimento. Alla Magistrale, comunque, si offriva un programma culturale importante. Poi c’erano le scuole di commercio e gli apprendisti. A me pare significativo che alcuni movimenti studenteschi siano nati proprio qui; si trattava di giovani che si stavano acculturando e che mantenevano al contempo un contatto non indifferente con la realtà.
Stava nascendo una nuova generazione?
Diciamo che in quegli anni si crearono una serie di situazioni particolari.
Da cosa siete partiti? Perché occupaste l’aula 20?
Dobbiamo dire che la Magistrale, altrimenti detta Normale, era una scuola altamente normativa diretta come si dirigevano le scuole cinquant’anni fa. E questo ci andava stretto.
Come si dirigeva una scuola cinquant’anni fa?
Con una direzione molto autoritaria. Gli spazi dedicati agli studenti erano decisamente modesti e quando andava bene, questi venivano vincolati attraverso i cosiddetti circoli studenteschi. Che erano il prolungamento dell’apparato, una rappresentanza organica. Alla Magistrale, inoltre, vi erano studenti che abitavano in zona e dunque tornavano ogni giorno a casa e altri, tanti, erano provenienti da altre località del Cantone e restavano a Locarno da lunedì a sabato, in convitto. Un’anteprima delle attuali case per studenti. La convivenza fra istruzione scolastica e vita quotidiana era un tutt’uno. Tanti malesseri sono partiti anche da lì. Perché il convitto era rigorosamente sotto sorveglianza. Con regole precise e rigide.
Del resto a quei tempi si credeva fosse un bene operare in quel modo. Bisognava temprare la personalità...
È quanto dico anch’io. Ogni evento va contestualizzato. In quegli anni abbiamo fatto bene a contestare quell’autoritarismo, ma col senno del poi dobbiamo ammettere che cinquant’anni fa tutta la società ticinese funzionava in quel modo. La scuola era dunque funzionale a quel sistema, ma s’iniziava ad avvertire qualche scossone. Si parlava e confrontava tantissimo, dentro i vari collettivi. Fino a giungere alla decisione dell’occupazione, che è stata un po’ la sintesi di tutto.
Lei fu il portavoce dell’occupazione, della protesta. Come mai? Perché venne scelto?
Me lo hanno chiesto in diversi, ma devo confessarle che non me lo ricordo. Ero certo pacato già allora, come lo sono sempre stato e forse questo ha aiutato perché confrontarsi con la stampa oltre a reggere il confronto con Bixio Celio direttore del Dipartimento e con Carlo Speziali direttore della scuola, non era così semplice. L’occupazione coinvolse circa 300 persone, oltre la metà degli studenti presenti allora alla Magistrale. Chi finì nel mirino delle autorità non andò oltre il numero delle dita di due mani. Poi ovviamente ci voleva qualcuno che doveva portare fuori i comunicati, che erano una sintesi delle numerose discussioni. Non mi sembra che si sia votato per decidere chi doveva metterci la faccia...
Se dovesse spiegare ai suoi nipoti cosa è stato il Sessantotto, cosa direbbe?
Una stagione che se non ci fosse stata si sarebbe dovuto inventarla, e sto alludendo alla crescita di ognuno di noi, all’apertura di idee e anche al coraggio nell’affrontare un sistema che, come tutti i sistemi, è decisamente più forte dei singoli individui. Poi certo si era molto giovani e anche parecchio idealisti, ma al contempo vi erano parecchie cose che non funzionavano e quando qualcosa non funziona, non bisogna per forza essere di sinistra per contestarla.
Una manifestazione spontanea che chiedeva spazio? È stato così ovunque, in quel periodo.
Sì, certo. Si voleva essere più partecipi e, in particolare, più considerati. In quegli anni non era scontato.
Anche perché sino a metà anni Sessanta si può dire che in Europa non esisteva ciò che oggi chiamiamo adolescenza. Si passava dall’infanzia all’età adulta d’un botto.
Con la differenza che, come dicevo all’inizio, chi ha avuto la fortuna di frequentare la Magistrale poteva contare su una formazione culturale completa e un possibile sbocco immediato, il che portava a maturare più in fretta. Va detto fra l’altro che hanno pagato di più proprio coloro che hanno partecipato al quel movimento, perché a un certo punto la vicenda si è incattivita a livelli elevati. Basti pensare al maggio francese e ad alcune manifestazioni italiane.
Sapevate cosa stavate facendo? Meglio, non avevate in testa chissà che strategia politica, o sì?
La nostra era una protesta legata al desiderio di cambiare una scuola che non rispondeva più alle nostre esigenze. E non solo quello.
Già, i costumi...
Ricordo che in quegli anni c’era un ‘dress code’ molto rigido. Le ragazze con gonna ovviamente sotto il ginocchio. Noi, quando uscivamo mercoledì pomeriggio dal convitto, dovevamo lasciare in segreteria l’itinerario e indicare dove si andava, perché ci controllavano...
Addirittura?
Per quanto non sono stati questi i motivi principali della nostra rivolta. Soprattutto c’era un desiderio d’innovazione, di maggior considerazione.
Poco spazio, però era una società capace di ‘contenervi’ nella vostra protesta...
Non dobbiamo dimenticarci il contesto del periodo. I partiti attuavano una forte selezione al proprio interno e i giovani difficilmente trovavano voce. Iniziavano a svilupparsi i movimenti giovanili dei partiti proprio per contrastare una specie di ostracismo. Chi aveva un ruolo non lo mollava mai. E tutti coloro che arrivavano a un certo livello erano legati a un certo tipo di potere. Dall’altra parte bisogna riconoscere che l’élite d’allora aveva le idee molto più chiare rispetto a oggi. E non c’era possibilità di mediazione: era così o cosà. Prova ne sia che quando noi abbiamo occupato, abbiamo usato un linguaggio che non era molto dissimile da quello usato dalle autorità scolastiche nei nostri confronti. Entrambi le parti erano molto ruvide. Ripensandoci, eravamo la fotocopia, l’alter ego di chi si contestava. Il sistema allora rimase comunque parecchio spiazzato perché non si sarebbe mai aspettato una simile reazione da parte degli studenti.
Ed è forse questa la vera scossa di quel tempo, di quel marzo.
Una forte scossa anche per noi, confrontati con una realtà che non si osava sfidare. Poi dopo tre giorni siamo rientrati nei ranghi, con una nota in condotta non assegnata per l’occupazione dell’aula 20. Qualcuno di noi non riuscì a concludere gli studi. Altri furono fortunati.
Non ci fu continuità?
L’anno successivo ci furono alcuni episodi minori. Diciamo che la spontaneità di quei giorni non trovò un seguito, mentre alcune idee continuarono a camminare nelle varie forme ideologiche.
I partiti storici seppero reagire, in qualche modo?
Superato lo stupore iniziale, ci fu chi studiò il fenomeno nato alla Magistrale dando strumenti di analisi ai partiti di allora. Non ci furono reazioni clamorose, ma fu pur sempre uno strumento utile per comprendere i cambiamenti in corso. Il sistema ha comunque capito subito che non poteva ignorare la protesta.
Cosa è cambiato a scuola?
Qualcosa, magari non molto. Noi all’epoca volevamo una scuola diversa, oggi stiamo ancora discutendo che fare col progetto ‘La scuola che verrà’. È un tema sempre aperto, anche perché ogni riforma è sempre in ritardo rispetto all’evoluzione della società. Servirebbero visioni ampie, larghe.
Una protesta come la vostra in Ticino non si è più verificata, come mai secondo lei?
Credo di poter dire che non c’è più la fame che avevamo noi cinquant’anni fa. Si è diventati più remissivi, meno combattivi. La maggioranza si direbbe si accontenti del nostro pur buon livello di vita. Forse una volta nonostante tutto c’era più spazio da... occupare. Io tre anni dopo mi ritrovai in Gran Consiglio nel gruppo del Partito liberale...
Che non è poca cosa.
Certamente. Del resto per me il Sessantotto è stato anche una vera e propria scuola politica. A quei tempi candidarsi per il parlamento non era così semplice, i giochi erano diversi. Fu anche quella una bella esperienza.