‘Nun te reggae più!’
Dall’astensionismo riflessivo alla democrazia senza cittadini Crescono i cittadini che non votano. L’astensionismo l’ha fatta da padrone nelle scorse elezioni politiche ginevrine e il Ticino ha dato il suo contributo in aprile: la riforma fiscale è stata
I fautori della riforma fiscale hanno preferito cantare in coro la soddisfazione per il successo della proposta; qualcuno, probabilmente con enfasi eccessiva, si è pure compiaciuto per la tenuta del “patto sociale”. Pochi si sono soffermati a considerare che quando il risultato è il frutto del consenso di un’infima minoranza degli aventi diritti di voto, più che di vittoria si può parlare di generale fallimento della politica. E non basta dire che coloro che non hanno votato non contano: contano, eccome contano.
Indifferenza, fastidio e sfiducia
“Nun te reggae più” cantava Rino Gaetano e con pungente ironia riassumeva un fenomeno oggi diffuso: l’indifferenza, il fastidio, la sfiducia dei cittadini verso la politica e l’arroganza latente dei rappresentanti della politica. Le parole apparentemente scanzonate si rivelarono macigni poderosi e infatti meritarono la censura. Era il 1978, ma a quarant’anni di distanza le cose non sono migliorate: il solco fra cittadini e governanti è cresciuto a dismisura e l’astensionismo segna una crisi profonda nella democrazia; e continuare a considerare l’astensionismo, come fanno in parecchi, una questione marginale, trascurabile, perlopiù fisiologica, ininfluente sulle procedure democratiche, è da sprovveduti. Eppure vi sono addirittura coloro che considerano l’astensionismo un fattore utile, perfino positivo, perché – sostengono con vigorosa convinzione – non è il numero che conta ma la qualità.
Largo all’epistocrazia
E infatti vi è chi suggerisce di passare alla cosiddetta epistocrazia, ossia dal governo del popolo al governo dei dotti, di “coloro che conoscono”, dei pochi “ben informati”. Secondo i fautori dell’epistocrazia, il diritto di voto dei cittadini dovrebbe essere limitato a coloro che sono in grado di superare un test elementare di conoscenza politica. D’accordo, ma mi si affaccia una perplessità non secondaria: quali sono le conoscenze indispensabili che garantiscono il buon governo e fanno il buon politico? E da dove cominciamo con gli esami? Magari dagli eletti che attualmente ci rappresentano? Mi pare giusto che così sia: temo però che, viste le non impeccabili esibizioni di questi ultimi tempi in materia di buona politica, folta sarebbe la schiera dei rimandati ad altra sessione per scarse conoscenze dei principi elementari di etica pubblica: disciplina che non mi pare molto frequentata. Forse, più che consegnare il paese nelle mani di un improbabile e impraticabile “governo dei migliori”, sarebbe sufficiente darsi da fare per mitigare i danni causati dall’ignoranza politica: una giornalista del ‘Washington Post’ precisa che l’aspetto più preoccupante “non è l’assenza di conoscenze in sé, ma l’arroganza con cui questa assenza di conoscenze viene esibita”: si riferisce a Trump e ai suoi accoliti, ma anche nel nostro piccolo non mancano gli emuli entusiasti. In ogni caso la visione epistocratica è comunque utile per farci capire che forse è giunto il momento di passare a nuove forme di democrazia in grado di produrre cittadini “interessati” e “informati” sulla politica. Conoscere per deliberare diceva Luigi Einaudi: raccogliamo il consiglio e diamo ai cittadini le opportunità per conoscere ed entrare nel meriplessi to delle questioni con cognizione di causa. Si tratterebbe di correggere la democrazia rappresentativa (da noi temperata dagli strumenti della democrazia diretta) introducendo delle procedure che consentano ai cittadini di essere adeguatamente informati e quindi di partecipare al processo deliberativo, ossia alla formazione delle decisioni: quindi non occorrono dibattiti la cui caratteristica è il livore e le contrapposizioni di bottega dei politici, e il cui esito finale non è, in genere, la chiarezza pedagogica ma la totale confusione delle idee. Occorre promuovere la cultura dell’approfondimento tematico al di sopra delle parti e la ricerca del colloquio con i cittadini che non si debbono limitare ad assistere allo spettacolo, ma diventare parte attiva. Come arrivarci? Sulle vie da seguire per raggiungere questo obiettivo i pareri sono diversi. Ma non sottovalutiamo il problema perché i monitoraggi ci indicano che la regressione della democrazia è un fenomeno in corso da qualche tempo.
La democrazia è partecipazione
Per tirare le somme: difficile che la democrazia regga a lungo senza la partecipazione dei cittadini. Nel 1972 ce lo suggeriva con geniale sintesi poetica Giorgio Gaber. Gli ingredienti della partecipazione sembrano semplici: apertura al dialogo, trasparenza delle informazioni, coinvolgimento della collettività dei cittadini nel processo decisionale. La partecipazione è quindi il pilastro essenziale della democrazia che esige la condivisione di valori collettivi affinché la libertà non si risolva in una rinuncia di responsabilità e il cittadino, come dice Gaber, non finisca col limitarsi squallidamente “a votare, a delegare e a farsi comandare”: un concetto fondamentale, questo, perché ci obbliga a riflettere sulla crisi di credibilità generata dal malfunzionamento della democrazia rappresentativa che troppi politici – ecco il grosso guaio – riducono ai minimi termini e identificano con la democrazia elettorale: il cittadino voti e poi, possibilmente, taccia e lasci il lavoro ai rappresentanti eletti. Yascha Mounk, un giovane studioso, in un recente volume di stimolante lettura (Il popolo vs. la democrazia), concorda e ci segnala che i cittadini continuano a conservare i diritti civili e le libertà economiche ma di fatto hanno la percezione di essere esclusi dalla vita politica e dalla partecipazione democratica. L’astensionismo quindi diventa un sintomo di un processo degenerativo assai pericoloso: l’ascesa di certe forme di democrazia “illiberale” o radicale – quella di un certo populismo che rifiuta a priori il pluralismo – è un dato di fatto da una quindicina d’anni a questa parte e le inchieste ci segnalano che l’avversione al modello rappresentativo è particolarmente forte nei Millenials, ossia nei giovani nati alle soglie del 2000 o poco prima.
L’astensionismo riflessivo e di opinione
Ma, in fin dei conti perché ci si astiene? C’è un’astensione, per così dire, fisiologica, che fa parte della storia della democrazia: è dettata dall’indifferenza, dal disinteresse, talvolta da un generico qualunquismo del “tanto sono tutti uguali”, ossia non voto tanto nessuno dei concorrenti eletti sarà in grado di trovare soluzioni adeguate. Ma la parte più cospicua del non voto, in continua crescita negli ultimi anni, è rappresentata dall’astensionismo riflessivo, di opinione. Vi sono certamente i duri e puri della democrazia rappresentativa, che non votano – ma sono una minoranza – perché sono soddisfatti di come vanno le cose, perché sono convinti che tocca ai rappresentanti eletti risolvere i com- problemi del paese e si esagera con il ricorso alla democrazia diretta. In realtà l’astensionismo riflessivo è soprattutto il volto discreto, silenzioso, dell’antipolitica: accanto ai cittadini che esprimono la loro rabbia nei movimenti antisistema e di protesta, vi sono cittadini, con appartenenze politiche molto diverse, che si astengono, non per apatia, ma per esprimere un giudizio negativo di insoddisfazione, di sfiducia, talvolta di netto rifiuto, verso un certo orientamento della politica e un ceto politico che non gode di lodevoli quotazioni. L’astensionismo riflessivo deve quindi essere valutato come un “voto di astensione”, come una risposta attiva a una situazione di sofferenza che, se trascurata, può mettere in gioco le stesse istituzioni della democrazia. Purtroppo una politica costellata di scandali – ce n’è per tutti i gusti: da Argo ai permessi facili a Rimborsopoli –, e la netta propensione di governanti e partiti a scopare sotto il tappeto le questioni di etica pubblica perché secondo loro l’unico metro di giudizio è l’‘irrilevanza giuridica’, rafforza l’impressione di molti: i rappresentanti non ci rappresentano più (il discorso non vale per le votazioni locali che rispondono a logiche diverse). Probabilmente nel nostro Cantone non si può parlare di una casta della politica in senso stretto, ma certe manifeste esibizioni di insofferenza, di sdegno altezzoso verso la critica legittima e la domanda di trasparenza, certe difese infastidite di ambigue prerogative, e il costante rifiuto dei partiti, salvo rarissime eccezioni, di porre le questioni di etica pubblica al di sopra degli interessi partigiani, fanno pensare che lo spirito di casta è ben presente. E noi, inermi cittadini, ne ricaviamo la sgradita impressione che siano troppi quelli che sembrano aver dimenticato che la politica è un servizio e non un diritto esclusivo: in genere se il servizio è scadente si cambia il cameriere. Ma non in politica, dove la qualità degli attori raramente è messa in discussione perché la responsabilità è sempre degli altri.
Eppure il vento soffia ancora?
Il rischio è di andare fuori tema, ma mi preme una considerazione. Gli eventi di questi ultimi anni indicano che i motivi di disgusto verso la politica sono diversi, ma sono soprattutto le macroscopiche disuguaglianze e le palesi ingiustizie generate dalla filosofia neoliberista che impregna tutta la politica a colpire in faccia il cittadino: che si sente ripetere che bisogna creare ricchezza in alto per poi distribuirla verso il basso. L’assunto si è rivelato menzognero e smentito dai fatti. Ma è la giustificazione che ha fatto capolino pure a sostegno della recente legge fiscale. Curiosamente, detto per inciso e a chiusura, è capitato in questi giorni di ascoltare tanti discorsi su meriti e demeriti del ’68 e qualcuno ha approfittato per appuntarsi una medaglia: un sessantottino della mia generazione – ora esponente altolocato del capitale finanziario – è arrivato alla conclusione che la filosofia neoliberista non c’entra per nulla con la scuola di Chicago, ma è figlia benemerita di quegli anni. Quindi secondo quel tale oggi raccogliamo i frutti succosi della semina di quegli anni: capita di ascoltare delle assurdità ma non è lecito perseverare perché si cade nel ridicolo. Forse sarebbe opportuno ammettere che oggi il vento soffia contro: è un vento impetuoso che spazza via, in parte riuscendoci, le idee migliori che hanno animato quegli anni. Sarebbe bene recuperare perlomeno un pezzettino dello spirito del ’68: liberté, égalité, fraternité era il credo di allora ed è ciò che l’ideologia politica dominante ha definitivamente rinnegato. Il pensiero unico neoliberista ci insegna che ciò che non ha senso economicamente debba essere eliminato: il ’68 proponeva un nuovo umanesimo che poneva al centro l’uomo e la partecipazione era una componente essenziale di una degna politica sociale, rispettosa di tutti. L’astensionismo riflessivo è la spia di un disagio profondo, di una protesta sorda e silenziosa, ma non serve per invertire la rotta: ci vuole ben altro.