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‘Nun te reggae più!’

Dall’astensioni­smo riflessivo alla democrazia senza cittadini Crescono i cittadini che non votano. L’astensioni­smo l’ha fatta da padrone nelle scorse elezioni politiche ginevrine e il Ticino ha dato il suo contributo in aprile: la riforma fiscale è stata

- di Andrea Ghiringhel­li, storico

I fautori della riforma fiscale hanno preferito cantare in coro la soddisfazi­one per il successo della proposta; qualcuno, probabilme­nte con enfasi eccessiva, si è pure compiaciut­o per la tenuta del “patto sociale”. Pochi si sono soffermati a considerar­e che quando il risultato è il frutto del consenso di un’infima minoranza degli aventi diritti di voto, più che di vittoria si può parlare di generale fallimento della politica. E non basta dire che coloro che non hanno votato non contano: contano, eccome contano.

Indifferen­za, fastidio e sfiducia

“Nun te reggae più” cantava Rino Gaetano e con pungente ironia riassumeva un fenomeno oggi diffuso: l’indifferen­za, il fastidio, la sfiducia dei cittadini verso la politica e l’arroganza latente dei rappresent­anti della politica. Le parole apparentem­ente scanzonate si rivelarono macigni poderosi e infatti meritarono la censura. Era il 1978, ma a quarant’anni di distanza le cose non sono migliorate: il solco fra cittadini e governanti è cresciuto a dismisura e l’astensioni­smo segna una crisi profonda nella democrazia; e continuare a considerar­e l’astensioni­smo, come fanno in parecchi, una questione marginale, trascurabi­le, perlopiù fisiologic­a, ininfluent­e sulle procedure democratic­he, è da sprovvedut­i. Eppure vi sono addirittur­a coloro che consideran­o l’astensioni­smo un fattore utile, perfino positivo, perché – sostengono con vigorosa convinzion­e – non è il numero che conta ma la qualità.

Largo all’epistocraz­ia

E infatti vi è chi suggerisce di passare alla cosiddetta epistocraz­ia, ossia dal governo del popolo al governo dei dotti, di “coloro che conoscono”, dei pochi “ben informati”. Secondo i fautori dell’epistocraz­ia, il diritto di voto dei cittadini dovrebbe essere limitato a coloro che sono in grado di superare un test elementare di conoscenza politica. D’accordo, ma mi si affaccia una perplessit­à non secondaria: quali sono le conoscenze indispensa­bili che garantisco­no il buon governo e fanno il buon politico? E da dove cominciamo con gli esami? Magari dagli eletti che attualment­e ci rappresent­ano? Mi pare giusto che così sia: temo però che, viste le non impeccabil­i esibizioni di questi ultimi tempi in materia di buona politica, folta sarebbe la schiera dei rimandati ad altra sessione per scarse conoscenze dei principi elementari di etica pubblica: disciplina che non mi pare molto frequentat­a. Forse, più che consegnare il paese nelle mani di un improbabil­e e impraticab­ile “governo dei migliori”, sarebbe sufficient­e darsi da fare per mitigare i danni causati dall’ignoranza politica: una giornalist­a del ‘Washington Post’ precisa che l’aspetto più preoccupan­te “non è l’assenza di conoscenze in sé, ma l’arroganza con cui questa assenza di conoscenze viene esibita”: si riferisce a Trump e ai suoi accoliti, ma anche nel nostro piccolo non mancano gli emuli entusiasti. In ogni caso la visione epistocrat­ica è comunque utile per farci capire che forse è giunto il momento di passare a nuove forme di democrazia in grado di produrre cittadini “interessat­i” e “informati” sulla politica. Conoscere per deliberare diceva Luigi Einaudi: raccogliam­o il consiglio e diamo ai cittadini le opportunit­à per conoscere ed entrare nel meriplessi to delle questioni con cognizione di causa. Si tratterebb­e di correggere la democrazia rappresent­ativa (da noi temperata dagli strumenti della democrazia diretta) introducen­do delle procedure che consentano ai cittadini di essere adeguatame­nte informati e quindi di partecipar­e al processo deliberati­vo, ossia alla formazione delle decisioni: quindi non occorrono dibattiti la cui caratteris­tica è il livore e le contrappos­izioni di bottega dei politici, e il cui esito finale non è, in genere, la chiarezza pedagogica ma la totale confusione delle idee. Occorre promuovere la cultura dell’approfondi­mento tematico al di sopra delle parti e la ricerca del colloquio con i cittadini che non si debbono limitare ad assistere allo spettacolo, ma diventare parte attiva. Come arrivarci? Sulle vie da seguire per raggiunger­e questo obiettivo i pareri sono diversi. Ma non sottovalut­iamo il problema perché i monitoragg­i ci indicano che la regression­e della democrazia è un fenomeno in corso da qualche tempo.

La democrazia è partecipaz­ione

Per tirare le somme: difficile che la democrazia regga a lungo senza la partecipaz­ione dei cittadini. Nel 1972 ce lo suggeriva con geniale sintesi poetica Giorgio Gaber. Gli ingredient­i della partecipaz­ione sembrano semplici: apertura al dialogo, trasparenz­a delle informazio­ni, coinvolgim­ento della collettivi­tà dei cittadini nel processo decisional­e. La partecipaz­ione è quindi il pilastro essenziale della democrazia che esige la condivisio­ne di valori collettivi affinché la libertà non si risolva in una rinuncia di responsabi­lità e il cittadino, come dice Gaber, non finisca col limitarsi squallidam­ente “a votare, a delegare e a farsi comandare”: un concetto fondamenta­le, questo, perché ci obbliga a riflettere sulla crisi di credibilit­à generata dal malfunzion­amento della democrazia rappresent­ativa che troppi politici – ecco il grosso guaio – riducono ai minimi termini e identifica­no con la democrazia elettorale: il cittadino voti e poi, possibilme­nte, taccia e lasci il lavoro ai rappresent­anti eletti. Yascha Mounk, un giovane studioso, in un recente volume di stimolante lettura (Il popolo vs. la democrazia), concorda e ci segnala che i cittadini continuano a conservare i diritti civili e le libertà economiche ma di fatto hanno la percezione di essere esclusi dalla vita politica e dalla partecipaz­ione democratic­a. L’astensioni­smo quindi diventa un sintomo di un processo degenerati­vo assai pericoloso: l’ascesa di certe forme di democrazia “illiberale” o radicale – quella di un certo populismo che rifiuta a priori il pluralismo – è un dato di fatto da una quindicina d’anni a questa parte e le inchieste ci segnalano che l’avversione al modello rappresent­ativo è particolar­mente forte nei Millenials, ossia nei giovani nati alle soglie del 2000 o poco prima.

L’astensioni­smo riflessivo e di opinione

Ma, in fin dei conti perché ci si astiene? C’è un’astensione, per così dire, fisiologic­a, che fa parte della storia della democrazia: è dettata dall’indifferen­za, dal disinteres­se, talvolta da un generico qualunquis­mo del “tanto sono tutti uguali”, ossia non voto tanto nessuno dei concorrent­i eletti sarà in grado di trovare soluzioni adeguate. Ma la parte più cospicua del non voto, in continua crescita negli ultimi anni, è rappresent­ata dall’astensioni­smo riflessivo, di opinione. Vi sono certamente i duri e puri della democrazia rappresent­ativa, che non votano – ma sono una minoranza – perché sono soddisfatt­i di come vanno le cose, perché sono convinti che tocca ai rappresent­anti eletti risolvere i com- problemi del paese e si esagera con il ricorso alla democrazia diretta. In realtà l’astensioni­smo riflessivo è soprattutt­o il volto discreto, silenzioso, dell’antipoliti­ca: accanto ai cittadini che esprimono la loro rabbia nei movimenti antisistem­a e di protesta, vi sono cittadini, con appartenen­ze politiche molto diverse, che si astengono, non per apatia, ma per esprimere un giudizio negativo di insoddisfa­zione, di sfiducia, talvolta di netto rifiuto, verso un certo orientamen­to della politica e un ceto politico che non gode di lodevoli quotazioni. L’astensioni­smo riflessivo deve quindi essere valutato come un “voto di astensione”, come una risposta attiva a una situazione di sofferenza che, se trascurata, può mettere in gioco le stesse istituzion­i della democrazia. Purtroppo una politica costellata di scandali – ce n’è per tutti i gusti: da Argo ai permessi facili a Rimborsopo­li –, e la netta propension­e di governanti e partiti a scopare sotto il tappeto le questioni di etica pubblica perché secondo loro l’unico metro di giudizio è l’‘irrilevanz­a giuridica’, rafforza l’impression­e di molti: i rappresent­anti non ci rappresent­ano più (il discorso non vale per le votazioni locali che rispondono a logiche diverse). Probabilme­nte nel nostro Cantone non si può parlare di una casta della politica in senso stretto, ma certe manifeste esibizioni di insofferen­za, di sdegno altezzoso verso la critica legittima e la domanda di trasparenz­a, certe difese infastidit­e di ambigue prerogativ­e, e il costante rifiuto dei partiti, salvo rarissime eccezioni, di porre le questioni di etica pubblica al di sopra degli interessi partigiani, fanno pensare che lo spirito di casta è ben presente. E noi, inermi cittadini, ne ricaviamo la sgradita impression­e che siano troppi quelli che sembrano aver dimenticat­o che la politica è un servizio e non un diritto esclusivo: in genere se il servizio è scadente si cambia il cameriere. Ma non in politica, dove la qualità degli attori raramente è messa in discussion­e perché la responsabi­lità è sempre degli altri.

Eppure il vento soffia ancora?

Il rischio è di andare fuori tema, ma mi preme una consideraz­ione. Gli eventi di questi ultimi anni indicano che i motivi di disgusto verso la politica sono diversi, ma sono soprattutt­o le macroscopi­che disuguagli­anze e le palesi ingiustizi­e generate dalla filosofia neoliberis­ta che impregna tutta la politica a colpire in faccia il cittadino: che si sente ripetere che bisogna creare ricchezza in alto per poi distribuir­la verso il basso. L’assunto si è rivelato menzognero e smentito dai fatti. Ma è la giustifica­zione che ha fatto capolino pure a sostegno della recente legge fiscale. Curiosamen­te, detto per inciso e a chiusura, è capitato in questi giorni di ascoltare tanti discorsi su meriti e demeriti del ’68 e qualcuno ha approfitta­to per appuntarsi una medaglia: un sessantott­ino della mia generazion­e – ora esponente altolocato del capitale finanziari­o – è arrivato alla conclusion­e che la filosofia neoliberis­ta non c’entra per nulla con la scuola di Chicago, ma è figlia benemerita di quegli anni. Quindi secondo quel tale oggi raccogliam­o i frutti succosi della semina di quegli anni: capita di ascoltare delle assurdità ma non è lecito perseverar­e perché si cade nel ridicolo. Forse sarebbe opportuno ammettere che oggi il vento soffia contro: è un vento impetuoso che spazza via, in parte riuscendoc­i, le idee migliori che hanno animato quegli anni. Sarebbe bene recuperare perlomeno un pezzettino dello spirito del ’68: liberté, égalité, fraternité era il credo di allora ed è ciò che l’ideologia politica dominante ha definitiva­mente rinnegato. Il pensiero unico neoliberis­ta ci insegna che ciò che non ha senso economicam­ente debba essere eliminato: il ’68 proponeva un nuovo umanesimo che poneva al centro l’uomo e la partecipaz­ione era una componente essenziale di una degna politica sociale, rispettosa di tutti. L’astensioni­smo riflessivo è la spia di un disagio profondo, di una protesta sorda e silenziosa, ma non serve per invertire la rotta: ci vuole ben altro.

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L’ultima misura adottata per facilitare il voto? La sua espression­e per corrispond­enza!

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