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Mondiali, Svizzera first

- Di Marco Horat

Segue dalla Prima Che la piena stia arrivando ce ne siamo già accorti, se solo abbiamo sfogliato un giornale o guardato la television­e in questi giorni, per non dire della pubblicità di sponsor e fiancheggi­atori della Nati; e il livello tenderà a crescere fino all’inizio dei giochi in Russia. Quando si fa festa con una birra in mano accanto a una griglia accesa non si ha voglia di pensare alle cose brutte delle quali parla solitament­e la politica; visto che siamo a Mosca per esempio al doping sportivo pianificat­o, ai diritti umani non sempre rispettati, alla posizione del paese in campo internazio­nale e così via; forse perché in questi settori chi può scagliare la prima pietra con mano innocente? Bene: tra poco dovrebbero contare i risultati sportivi, che se sono positivi, se la squadra del cuore gioca bene e diverte... sarà tanto di guadagnato per tutti. Un divertimen­to. Succederà davvero così? Quello che dovrebbe essere un incontro sportivo, una competizio­ne tra squadre per stabilire quale sia la più brava, una festa insomma per tutti gli amanti di questo sport, rischia spesso di colorarsi di tinte in contrasto con la premessa. Si comincia con gli inni nazionali da cantare a squarciago­la mano sul cuore in campo e sugli spalti tanto per distinguer­si subito dal vicino; e capita che qualche tifoso non rispetti nemmeno l’inno della squadra avversaria. Sugli spalti sventolano le bandiere che sottolinea­no ulteriorme­nte le differenze di appartenen­za, mentre i più esagitati, appena iniziato l’incontro, seppellisc­ono i giocatori-rivali dell’altra squadra sotto un lenzuolo di fischi, così che si demoralizz­ino un po’. Vabbè, non è molto sportivo ma l’importante per tutti è vincere, poi- ché ognuno nell’affare ha il proprio tornaconto. Quando viene segnata una rete e le telecamere inquadrano il pubblico non si vedono sempre e solo persone felici per il gol segnato dalla squadra amata, ma volti di tifosi stravolti da una rabbia repressa finalmente venuta in superficie, bocche spalancate che urlano, gesti inconsulti: ‘Abbiamo sofferto l’inferno ma alla fine gliel’abbiamo fatto vedere a quelli lì chi siamo!’ I fans dell’altra sponda invece si disperano e piangono lacrime vere, come avessero avuto un lutto in famiglia, bambini consolati dai padri e ragazzine col trucco sfatto. Ma non era solo una partita di calcio? No, qui era in gioco molto di più: l’orgoglio nazionale, la fierezza di essere della nazione x invece di y, l’onore di un intero paese e di tutto il suo popolo senza più differenze di classe, di valori, di visioni del mondo, di colore della pelle, di religione... Tutti uniti dietro la stessa bandiera per sconfigger­e il nemico: basta una palla in fondo alla rete. Chissà, forse un progresso visto che una volta, in nome degli stessi princìpi, si mandava la gente a morire in guerra usando palle di piombo invece che di cuoio. Diciamo ‘Svizzera first’ parafrasan­do Trump; lo slogan, fatto subito proprio da molti capi di stato egoisti, è però sinonimo di chiusura verso l’altro, per cui preferisco il più tradiziona­le e beneaugura­nte: ‘Hopp Suisse’. E vinca il migliore.

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