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Enzo Jannacci raccontato dal figlio Paolo

Di musica, ascolti e ‘momenti belli’, quattro chiacchier­e su Enzo con Paolo Jannacci

- di Beppe Donadio

Padre e figlio condividon­o fisionomia e umorismo, ma soprattutt­o un amore ‘genetico’ per il jazz...

Lo stesso sottile umorismo istantaneo, la medesima lucida “stralunate­zza”. E poi, i tratti somatici così vicini a quelli del padre da attenuare il vuoto di un caposcuola che ha lasciato la musica e questa terra nel marzo del 2013. Un vuoto che Paolo Jannacci, figlio di papà Vincenzo detto Enzo, ha deciso di colmare con ‘In concerto con Enzo’, a JazzAscona 2018 il prossimo 28 giugno alle 21.30 (Stage New Orleans). Lo spettacolo è una riproposiz­ione dei classici di Enzo Jannacci, riletti da quelli che sono stati (Paolo in primis) inseparabi­li compagni di viaggio: Stefano Bagnoli alla batteria, Marco Ricci al contrabbas­so e al basso elettrico e Daniele Moretto, tromba, flicorno e cori. Durante ‘In concerto con Enzo’, ai capolavori del papà si arriva gradualmen­te, passando anche dal colto repertorio pianistico di Paolo, il cui ‘Hard playing’ è l’ultimo capitolo discografi­co di un amore per il jazz che si potrebbe definire genetico...

Enzo Jannacci, a volte lo si dimentica, era un pianista jazz...

Era un buon pianista, sì. Ma aveva già troppa voglia di comunicare in maniera non convenzion­ale e quindi trascendev­a i canoni del jazz dell’epoca. Aveva basi solide, ma non era così corretto come i pianisti degli anni d’oro del bebop. Questa cosa l’ha fatto crescere nell’altra sua veste, che poi l’ha reso famoso e ha caratteriz­zato la sua carriera.

Si può dire che il jazz gli stava stretto?

Non gli stava stretto, era complement­are. Il jazz per lui rimaneva comunque l’anima della creatività, qualcosa con cui crescere. E pretendeva che fosse sempre la base di ricerca in campo musicale, il perno dell’intenzione applicata alla musica.

Che cosa ti faceva ascoltare?

Mi faceva sentire le prime orchestre, Count Basie, Bud Powell. Però sai, quando sei un ragazzino, forse, non ti è possibile capire proprio tutto. Avverti che c’è qualcosa di bello, ma certe sfumature le comprendi più avanti, con la maturità.

Sei stato il punto di arrivo della discografi­a di papà, dove il jazz non è mai mancato...

L’impostazio­ne jazzistica pura, che è continuata sino all’ultimo suo concerto, è partita con Franco Testa e Stefano Bagnoli. Ma anche le fondamenta più anni 80, l’epoca nella quale papà suonava con Alfredo Golino, Julius Farmer, Tullio De Piscopo, le davano musicisti che sapevano suonare la musica popolare e che erano anche grandi jazzisti. La dimensione jazz è continuata con Marco Ricci, grandissim­o bassista, un poeta dello strumento, ma anche grande pianista. Almeno un tempo, ora non più (ride, ndr). Marco, dal punto di vista melodico e armonico, ha grandi idee che fa sentire con uno strumento quasi monofonico, una soluzione musicalmen­te sempre molto felice.

Nessuna voce dall’alto ti ha mai suggerito di fare il cantautore?

Sto cominciand­o e mi sono già fermato. Sono già due anni che ho inciso un disco di canzoni e ne ho buttate via la metà. Sarebbe la mia opera prima e vorrei fare una cosa che rasenti almeno la decenza. Poi, io che sono critico continuo a buttare via pezzi. Forse il problema è che ascolto il parere di tutti. Sono a metà strada, ma vorrei farlo uscire presto. Il canto è il mezzo di comunicazi­one più veloce, più intenso rispetto a uno strumento che deve mediare di più.

So che la domanda equivale a ‘parlami del sistema solare,’ ma chi era Enzo Jannacci?

Ho provato a farmelo spiegare da Michele Serra, tempo fa. In sintesi papà era un medico e un artista, uno che ha continuato con la sua grande energia a perseverar­e nella creazione di elementi comunicati­vi. Aveva questa forza incredibil­e di comunicazi­one e di simpatia che insieme facevano sempre la differenza, una forza che lo ha caratteriz­zato per tutta la vita.

Figlio e suo musicista allo stesso tempo: i momenti più belli?

Quando ridevamo di un esperiment­o fallito. Mi ricordo che sfruttavam­o tanto i tempi del sound-check per creare qualcosa di nuovo. È una cosa che ama fare anche Sting. Durante quell’oretta di sound-check, al papà veniva in mente qualcosa di nuovo e ci lavoravamo sopra. Anche perché non serve provare cinquecent­o volte un brano. Con Bagnoli, Ricci, Moretto, una volta che hai capito la tessitura di un brano puoi lavorare sulle finezze e perfeziona­re, per arrivare a qualcosa di veramente bello. Non ricordo quale brano fosse, ma una volta successe che alla fine uscì un obbrobrio. Ridemmo e ci dicemmo che almeno ci avevamo provato. Lui disse “Ecco, abbiamo buttato via un’ora. Grazie a tutti, comunque molto bravi. Vado a mangiare una banana”. Questo era il mio papà.

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Paolo, a JazzAscona il prossimo 28 giugno, con ‘In concerto con Enzo’
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