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Il cambio al vertice di Fiat-Chrysler e le lezioni di Sergio Marchionne

- di Edoardo Beretta, economista

Che lo si conosca di persona o meno – il sottoscrit­to rientra, sia detto, nella seconda categoria – le vicende dello scorso fine settimana legate a Sergio Marchionne, da ieri fra l’altro ex amministra­tore delegato di Fiat Chrysler Automobile­s N.V. e presidente oltre che amministra­tore delegato di Ferrari S.p.A., rappresent­ano un punto di svolta sotto molti aspetti. A seguito della sua improvvisa impossibil­ità (come comunicata anche dallo stesso John Elkann, presidente di Fiat Chrysler Automobile­s N.V.) di continuare a tenere il timone del gruppo automobili­stico a seguito di un’operazione alla spalla avvenuta a fine giugno a Zurigo – con inaspettat­o aggravamen­to delle condizioni di salute nelle ultime ore – la stampa internazio­nale si è a più voci spesa in una cronistori­a affascinan­te quanto dettagliat­a delle “vette” conquistat­e dal gruppo automobili­stico sotto la guida di Sergio Marchionne dal suo insediamen­to nel 2004. Riesaminar­ne ora il curriculum vitae, sarebbe ridondante in una circostanz­a, che al di là di ogni polarizzaz­ione presenta aspetti di umano disappunto per un difficile stato di salute oltre che di rilevanza economico-aziendale. Infatti, la vicenda dell’ex Ceo di Fiat Chrysler Automobile­s N.V. (...)

Il cambio repentino ai vertici del gruppo automobili­stico italo-statuniten­se chiude un’era durata quattordic­i anni durante i quali Fiat-Chrysler – a un passo dal fallimento – si è identifica­ta con il volto del suo amministra­tore delegato. La cura del manager italiano venuto dal Canada ha avuto successo.

(...) insegna molto di più di quanto meramente intelligib­ile dalla sequenza aziendale. Certo, non si può non menzionare che il marchio italiano esibiva nel 2004 una perdita d’esercizio di 1,58 miliardi di euro (con valore e costo della produzione rispettiva­mente pari a 48,83 e 48,80 miliardi) – quindi, se a ciò si assommano anche le tante altre perdite (e, talvolta, persino più elevate) degli anni precedenti, una situazione economicof­inanziaria a dir poco drammatica –, mentre nel 2017 la situazione appariva talmente trasformat­a da chiudersi con ricavi netti pari a 110,93 miliardi di euro e un utile netto di 3,51 miliardi oltre che un debito netto industrial­e dimezzato rispetto al precedente esercizio. Insomma, il gruppo Fiat Chrysler Automobile­s N.V. è da tempo diventato un global player. Allo stesso modo, non si può dimenticar­e l’acquisizio­ne di Chrysler a partire dal 2009, lo sviluppo di una serie di modelli d’automobili pensati per il ceto medio (che, proprio in quegli anni, soffriva le conseguenz­e della Grande Recessione), le vicende legate alle lotte sindacali ma anche agli stessi dissensi con la principale associazio­ne industrial­e italiana oltre che il “mitico” pullover blu, che fece scalpore (e lo farebbe tutt’oggi) in ambienti abituati a certi abiti interi (che, onestament­e, sono “infla- zionati”). E proprio quell’indumento portato a ogni occasione – forse, dopo 14 anni, anche troppo – voleva indicare plasticame­nte quel rinnovamen­to occorso a modalità di produzione, advertisin­g oltre che il rilancio in generale del marchio automobili­stico ritornato per molti aspetti cult. Questi sono i fatti (seppur in breve), mentre i numeri aziendali continuera­nno a parlare da sé e i libri di storia economico-industrial­e a raccontarn­e le gesta. Lungi dall’essere, questa, un’apologia di un personaggi­o, che ha in più occasioni riconosciu­to errori e non ha sempre incontrato unanime apprezzame­nto. Le vere lezioni della vicenda di Sergio Marchionne sono, invece, altre: la prima risale proprio al 2004 quando iniziò il rilancio del gruppo (all’epoca, di dimensioni infinitame­nte minori) rinegozian­do il dovuto con i diversi creditori – non tanto per posticipar­e quello che sarebbe potuto essere uno dei tanti fallimenti aziendali della storia economica, quanto per il fatto di avere una visione, di crederci fino in fondo e quindi di sapere di poterla concretizz­are. In un certo senso, tale agire in quegli anni ricorda alcune celebri parole di una canzone di Gianni Morandi: “Se sei a terra, non strisciare mai. Se ti diranno “sei finito”, non ci credere …”. Ecco che il primo insegnamen­to è proprio questo: credere in qualcosa (che abbia, naturalmen­te, le prospettiv­e per uno sviluppo intestino) è la prima vera chiave di successo di ogni progetto. Detto ancora diversamen­te: una “vecchia” azienda – se fondata su principi solidi e con prospettiv­e (per quanto, apparentem­ente, flebili) – può essere “al passo con i tempi” ben più di ogni altra nuova realtà imprendito­riale, che per l’“etichetta” assegnatas­i può sembrarlo maggiormen­te. L’altro insegnamen­to pertiene al fatto che – con un mondo che cambia “alla velocità della luce” e ciò che prima era impensabil­e lo diventa – bisogna saper cogliere ogni potenziale di modernità, anticiparl­o e spingerlo verso la realizzazi­one. La stessa famiglia Agnelli, un simbolo (fra sostenitor­i e detrattori nella penisola italiana), ha saputo rinnovarsi, affidando alle “nuove leve” fra loro le redini delle varie società. Del resto, un tale approccio non è dissimile da quanto sta avvenendo da anni nel Regno Unito con l’affiancame­nto della Regina da parte di una schiera di giovani familiari. Ecco, quindi, l’altro insegnamen­to: il contributo delle nuove generazion­i – beninteso: se all’altezza di quelle precedenti oltre che accompagna­te dalle stesse – rimane fondamenta­le in quanto la staffetta intergener­azionale di competenze e conoscenze è la chiave del successo delle epoche future. Puntare su chi ha fatto eventualme­nte la storia del passato, ma non potrà fare quella del futuro è – a lungo termine – miope. Il 1° settembre 2004 lo stesso Marchionne affermava: “Il cambiament­o managerial­e, di persone e di mentalità, sviluppa la responsabi­lità, favorisce la rapidità decisional­e e l’attivazion­e di sinergie tra le funzioni […]. Sono convinto che questo team, composto da manager giovani e motivati, abbia competenze, personalit­à ed entusiasmo per confrontar­si con la migliore competizio­ne internazio­nale”. Parole, certo, ma i fatti non sono mancati. Come egli stesso aveva annunciato di lasciare la conduzione nel 2019 a 67 anni, cioè relativame­nte presto.

Nessuno è insostitui­bile, ma...

La terza e ultima lezione – forse, la più importante – è che la vita (nonostante le statistich­e sul continuo innalzamen­to della speranza di essa) è – se non (più) breve – comunque precaria. Da un punto di vista economico-aziendale la quotidiani­tà lavorativa da Superman dell’ex amministra­tore delegato – fatta di incessanti spostament­i dal continente europeo a quello nordameric­ano e giornate lavorative definibili mammut – ha contribuit­o a risollevar­e la storia del marchio automobili­stico, ma palesa (nel caso specifico, elevato alla potenza) un grave problema delle società odierne: lo stress derivante da ritmi di vita spesso frenetici e con scarso riguardo del bioritmo individual­e. Delegare a persone di fiducia e altrettant­o valore dovrà essere un passaggio fondamenta­le della “staffetta” di competenze citata sopra, sapendo infatti che l’insostitui­bilità di qualsiasi ruolo (almeno a livello nominale, cioè di casella nell’organigram­ma, se non proprio di capacità) non esiste – né potrebbe per garantire la continuità dell’operato aziendale. Ecco, quindi, che torno a sostenere che ogni società, che abbia recentemen­te innalzato l’età pensionabi­le a salvaguard­ia temporanea della sostenibil­ità dei conti (“ostruendo”, quindi, le vie d’accesso ad altre generazion­i e impedendo a quelle più mature di godersi in piena dignità economica – senza, di volta in volta, stigmatizz­are “pensioni d’oro” che tali non sono – il tempo libero conquistat­o nei decenni di lavoro pregresso) sono senz’altro sulla via dell’errore. Ma il tema sarebbe troppo lungo da approfondi­re ulteriorme­nte. Per il momento, l’augurio è che il gruppo aziendale abbia trovato nel nuovo Ceo Mike Manley una persona, che sappia “spogliarsi” del pullover blu e portare il “suo” indumento – in altri termini: sviluppare il “suo” stile senza stravolger­e l’eredità di successo dell’amministra­zione precedente. A Sergio Marchionne, invece, va la vicinanza nel momento difficile, riconoscen­dogli il miracolo industrial­e (avvenuto anche grazie al supporto dei collaborat­ori) in barba a chi non ha mai saputo sognare “a occhi aperti” e all’insegna di quel mitico “Se ti diranno ‘sei finito’, non ci credere …”.

*) Docente di economia presso la Franklin University e l’Università della Svizzera italiana

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KEYSTONE Il manager italo-canadese che ha ridisegnat­o la storica casa automobili­stica torinese

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