Prima della rivoluzione
Giorgio Bellini dal Sessantotto ticinese alla militanza nell’Autonomia Operaia
L’apprendistato di un rivoluzionario: potremmo definire così l’adattamento della lunga intervista pubblicata sull’ultimo numero (163) dell’‘Archivio Storico Ticinese’. L’estratto, per gentile concessione della redazione della rivista, dà conto degli anni di formazione politica di Bellini, quel ‘Sessantotto’ che anche in Ticino agì da fermento rinnovatore della società.
Nato a Bellinzona nel 1945, Giorgio Bellini è stato dapprima uno dei protagonisti del ’68 ticinese, quale esponente del Movimento Giovanile Progressista, che sosteneva le lotte di studenti e apprendisti e incoraggiava le rivendicazioni operaie. In seguito, ha militato a Zurigo per lunghi anni, dapprima in organizzazioni vicine all’Autonomia Operaia, attive soprattutto tra i lavoratori italiani immigrati, poi nella lotta contro le centrali nucleari, anche con atti di sabotaggio, e in seguito nei movimenti associativi diffusisi a Zurigo sulla scia della rivolta giovanile del 1980. La conoscenza di personaggi e gruppi implicati in attività terroristiche gli è valsa alcuni tentativi d’incriminazione dai quali è sempre stato prosciolto. Particolare risalto assunse nel 1981 il suo arresto in Germania, in seguito a un mandato di cattura con richiesta d’estradizione presentato dall’Italia nell’ambito del processo detto Sette aprile, contro i dirigenti dell’Autonomia Operaia accusati di essere gli ispiratori delle Brigate Rosse. [...]. La magistratura tedesca negò l’estradizione e Bellini fu rilasciato dopo alcuni mesi passati in carcere. Ma nel 1994, la procuratrice federale Carla Del Ponte lo fece arrestare e cercò d’incriminarlo per complicità con il noto terrorista Carlos, arrestato qualche tempo prima. Anche questa volta fu scagionato da qualsiasi accusa e persino risarcito dalla Confederazione. Dagli anni Novanta, messo in sordina il “lavoro politico”, Giorgio Bellini si è occupato dell’Inventario delle vie storiche della Svizzera (IVS), un progetto voluto dal Consiglio federale e gestito dall’Università di Berna. [...]
Iniziamo questa chiacchierata parlando dei tuoi anni giovanili e della tua formazione.
Sono nato e cresciuto a Bellinzona, dove ho frequentato tutte le scuole. Mio padre era ingegnere civile e lavorava per il Cantone, occupandosi di strade; voleva che diventassi ingegnere anch’io. […] Mia madre, invece, avrebbe voluto che studiassi diritto per diventare avvocato. A me però non piacevano molto lo studio e la scuola. A 15 anni avevo già letto Marx e Lenin e un po’ per una scelta di classe, di solidarietà con gli operai, insieme con alcuni amici – tra i quali Renato Berta – ho deciso d’interrompere gli studi ginnasiali per iniziare un apprendistato di meccanico […]. Ancora oggi sono contento di quella scelta perché ho imparato a lavorare con le mani. Dopo 4 anni d’apprendistato ho lavorato ben tre settimane come operaio (ride) e poi ho deciso di frequentare il Technicum a Bienne, formazione che ho abbandonato dopo tre semestri. Eravamo nel 1967 e decisi di presentarmi alla maturità federale. Avevo sostenuto la prima metà degli esami e quando si trattava di sostenere l’altra metà, è sopraggiunto il Sessantotto e mi sono detto: che ci vado a fare all’Università, che tanto con la rivoluzione la chiudiamo! […]
In che modo un giovane come te si è avvicinato alla politica e ai movimenti d’estrema sinistra?
All’inizio degli anni Sessanta a Bellinzona non c’erano molti luoghi di aggregazione e di discussione per giovani. […] Avevo anche aderito alla sezione dei boy scout di Bellinzona ed ero diventato capo dei rover. Anche gente che non era mai stata negli scout partecipava ai nostri incontri; la sezione scout stava diventando una specie di luogo di discussione marxista in seno a un’organizzazione molto legata al partito liberale […]. Sotto la guida di alcune persone […] come Emanuele Bernasconi con formazione filosofica, o Gilberto Isella, avevamo poi messo in piedi un gruppo più politico, chiamato Centro Lenin, nel quale c’erano anche Francesco Hoch e sua sorella, Renato Berta, Delta Geiler e altri. […] Il Centro Lenin era affiliato a un partito filocinese che aveva il suo centro a Losanna ed era diretto da Nils Andersson. Siamo stati esclusi come sezione ticinese, perché accusati di aver insultato un “partito fratello”. […] Abbiamo allora creato un piccolo gruppo in Ticino che si chiamava Per l’organizzazione della classe operaia. Andavamo in giro a distribuire volantini contro la “pace del lavoro” in diverse fabbriche della regione. Siamo stati fermati per la prima volta dalla polizia mentre stavamo distribuendo volantini davanti all’acciaieria Valmoesa (Monteforno) di San Vittore, in Mesolcina. È arrivato un poliziotto grigionese abbastanza simpatico che si chiamava Filippo Gamboni. «Ragazzi», ci disse bonario, «oggi comandano loro e devo arrestarvi. Se domani comanderete voi, sarò ai vostri ordini». […] Intorno al 1967 sono cominciate anche le manifestazioni contro l’intervento americano in Vietnam. Ricordo che la sinistra socialista manifestava con striscioni e cartelli «Pace per il Vietnam», mentre noi esibivamo cartelli con scritto «I vietcong a Saigon». Ci siamo accorti di avere un certo seguito tra i giovani. A quel momento abbiamo deciso che si poteva lasciar perdere definitivamente gli scout […]. Abbiamo quindi deciso di creare un movimento e bisognava dargli un nome. Abbiamo scelto quello più generico e neutro possibile: Movimento Giovanile Progressista, noto poi con l’acronimo Mgp. C’erano due leader che avevano già una certa esperienza politica: Bruno Strozzi, venuto dal Partito del Lavoro insieme con diversi giovani comunisti, e Gérard Delaloye, che era stato in Consiglio comunale a Losanna per i comunisti. […] La sua casa era diventata un po’ il nostro luogo d’incontro. […].
Avevate delle organizzazioni o movimenti di riferimento in Italia o nel resto della Svizzera? Quali erano le vostre fonti d’informazione e di riferimento ideologico?
Strozzi e Delaloye avevano idee marxiste precise: il primo veniva dal partito comunista e l’altro era stato trotzkista. Io ero genericamente marxista, leggevo Rinascita, Le Monde, la Monthly Review, una rivista americana che dal 1968 usciva anche in italiano; si leggeva anche Granma, organo ufficiale del partito comunista di Cuba. Ma se guardo i volantini che facevamo circolare allora, mi fanno un po’ ridere. Poi avevamo allacciato contatti in Italia. Grazie a Giairo Daghini, che aveva studiato filosofia con Enzo Paci a Milano, ci siamo avvicinati al gruppo della rivista ‘Classe operaia’, diretta da Mario Tronti e dove c’era anche Alberto Asor Rosa. […]
Nella sua Storia del Partito socialista autonomo, Pompeo Macaluso scrive a proposito dell’Mgp «pur esercitando per larga parte del Sessantotto una notevole influenza su alcuni segmenti del mondo giovanile, non ebbe mai carattere di rappresentanza sociale, restando sempre un raggruppamento di persone unite essenzialmente da una scelta ideologica radicale… […]». In pratica, vi accusa di funzionare in modo settario.
Mi sembra un giudizio eccessivo. Eravamo aperti a incontri e discussioni con esponenti socialisti – per esempio con Werner Carobbio – che abbiamo certo spinto verso le nostre posizioni, allontanandoli dalla linea dei partiti socialdemocratici: lui e qualche altro sono poi stati espulsi dal Partito socialista ticinese. Per quanto riguarda l’organizzazione, avevamo sì una struttura un po’ di tipo leninista. […] Ma era tutto un po’ all’acqua di rose. Quando si parla dei movimenti del ’68 si tende sempre a esagerare l’aspetto ideologico […]. Noi eravamo più un raggruppamento di tipo sociale e generazionale […]. Ci raggruppavamo per affinità rispetto al nostro rifiuto di una società nella quale non potevamo riconoscerci. Io e altri avevamo studiato il marxismo e avevamo anche una linea ideologica precisa, ma altri avevano aderito senza avere una chiara coscienza politica. […]
Il ’68 in Ticino – concentrato soprattutto sull’occupazione della Scuola Magistrale a Locarno – ha sorpreso voi dell’Mgp, oppure vi è sembrato lo sbocco inevitabile dei fermenti che si riscontravano nel mondo della scuola e tra gli studenti?
Sorpresi no: un po’ ci si aspettava una cosa del genere […]. Noi, tuttavia, non puntavamo specialmente sulla Magistrale e non abbiamo avuto un ruolo determinante in ciò che è successo, anche se alcuni membri dell’Mgp erano studenti nell’istituto. Il tutto è maturato all’interno della scuola, con dinamiche proprie: le controversie intorno a Carlo Speziali, al tempo stesso direttore contestato per certi suoi atteggiamenti e sindaco liberale di Locarno, sono state un fattore scatenante decisivo. Dopo la contestazione alla Magistrale, un certo numero di studenti ha aderito al nostro gruppo. Ma abbiamo anche avuto dissidi con loro: erano concentrati sulla scuola, che volevano migliorare, mentre per noi quanto successo nella scuola era una possibilità per generalizzare le lotte e agevolare una situazione che credevamo rivoluzionaria. Il nostro obiettivo era di coinvolgere i lavoratori, andare verso gli operai di fabbrica.
Quali sono state le principali iniziative in questo ambito?
Dopo le agitazioni studentesche del ’68 abbiamo fatto un giornale, Lotta di classe, con una tiratura di 20’000 copie che distribuivamo nelle fabbriche, ma più ancora ai valichi di frontiera per coinvolgere i frontalieri; era più facile ed efficace che organizzare volantinaggi davanti ai singoli stabilimenti. Finanziavamo la pubblicazione del giornale con le quote dei nostri membri e grazie a generose donazioni: allora diversi artisti, architetti ticinesi o altri professionisti ci sostenevano dandoci quadri da vendere all’asta o contributi finanziari per le nostre attività. […] Nel 1970 […] siamo stati contattati da alcuni frontalieri che ci hanno detto di voler organizzare uno sciopero presso il calzaturificio Savoy, perché la situazione era insostenibile: salari bassissimi e lavoro a cottimo. La Savoy era un calzaturificio di Stabio, filiale del gruppo Bally. Abbiamo quindi organizzato uno sciopero (iniziato il 12 maggio) nel giro di una settimana. Siamo andati lì a distribuire volantini agli operai che dovevano scioperare. Poi, siamo rimasti lì fuori Delaloye ed io ad aspettare. Dopo un’ora sono usciti alcuni operai e ci hanno detto di essere stati licenziati. È quindi iniziato lo sciopero e noi, che non avevamo nessuna esperienza in materia, abbiamo dovuto dirigerlo. I sindacati erano contro; anche il Psa ha aspettato tre settimane prima di sostenere l’agitazione. Grazie agli studenti universitari vicini a noi sparsi in tutta la Svizzera, abbiamo raccolto soldi in tutto il Paese e abbiamo potuto versare buona parte dello stipendio agli scioperanti, circa 200. I sindacati ticinesi spingevano per la ripresa del lavoro e ci accusavano di aver aizzato i lavoratori a scioperare per mettere in cattiva luce il loro operato. […] I dirigenti della Bally hanno subito minacciato di chiudere lo stabilimento se gli operai non avessero ripreso il lavoro: 63 operai hanno deciso di continuare lo sciopero e furono licenziati. C’è stata una seduta di conciliazione con il Dipartimento opere sociali del Canton Ticino ma i dirigenti della Bally non volevano negoziare. Lo sciopero si concluse a inizio giugno con un aumento del 5% dei salari e il licenziamento di una cinquantina di operai. In seguito all’esperienza della Savoy siamo arrivati alla conclusione che in Ticino c’erano soltanto succursali di gruppi industriali e finanziari che potevano tranquillamente permettersi di chiudere gli stabilimenti di fronte alla contestazione e alle lotte operaie. Abbiamo quindi deciso di lasciare il Ticino e continuare il nostro lavoro nella Svizzera interna […].