Ritratto di un signore solare
Ormai lo conosciamo, è un uomo tutto d’un pezzo, risultato però di mille frammenti in contrasto tra loro; è alto e dinoccolato, leggero come se non avesse radici eppure bronzeo come un David di Donatello commissionato dal Credito svizzero; è capace di battere i pugni sulla scrivania del più agricolo dei consiglieri federali, che vuole potare i contributi al Festival, ma anche pronto a sciogliersi in lacrime quando gli operai delle Officine intonano un canto di battaglia. Mi piacerebbe seguirlo, invisibile come il protagonista del romanzo di Garbuglia, pedinarlo durante una fitta giornata locarnese, per carpire ciò che di vero c’è in quel suo modo sentimentale di raccontare le cose, per distinguere la persona pubblica da quella che, come diceva un personaggio dell’Uomo che non c’era, si abbassa i pantaloni come tutti, quando deve. Posso però solo immaginare quel che emerge tra una conversazione con Alain Berset e una con il suo direttore, che così amabilmente accarezza sulla testa ben rapata, con il sindaco, la cui esuberanza al suo cospetto si restringe al pari di un maglione di lana lavato a novanta gradi; mi piacerebbe sentire i suoi pensieri quando si congeda dal rappresentante della Chicco d’oro, che è entrato a far parte della grande Famiglia, o quello della Mobiliare, che chiede un po’ troppo, ma bisogna sorridere e incassare, riscuotere e gioire. Mi piacerebbe rubare la conversazione al telefono con la moglie dopo che si è dovuto a malincuore alterare, per un dettaglio vitale, con un distratto membro del suo staff, di cui parla solo bene. Mi piacerebbe monitorare le sue palpitazioni, quando quei pochi anarcoidi rimasti fischiano ancora, nonostante sia a tutti gli effetti uno dei patrimoni più solidi e longevi della recente storia nazionale, i mecenati dell’Unione di Banche Svizzere. Non tollera le critiche ed è contemporaneamente permeato di liberalità anglosassone, si muove tra due opposti che potrebbero piacere a un romanziere come Nicola Lagioia o Walter Siti, un generale senza macchia e un Socrate morente che tollera i lazzi di chi deve ancora crescere e capire. Vorrebbe il consenso assoluto, il cento per cento dei voti, vorrebbe essere un papà, di fronte al quale, nei primi cinque anni, un bimbo strabuzza solare gli occhi. Divide il mondo in buoni e cattivi, da una parte i fratelli che remano nella giusta direzione, dall’altra tutti gli altri, quelli che usano il cerino per illuminare le poche debolezze, parlano di pioggia se piove o di calura se l’afa brucia l’erba, come se fosse colpa sua. Vorrebbe, ne sono quasi sicuro, essere circondato da ottimisti, da entusiasti, gente che dà fondo al talento per rinvigorire il bello che c’è, per stanare il positivo a tutti i costi. Perché irrigidirsi e ispezionare il lascito di un cane sotto l’albero senza vedere la magnificenza del platano? I suoi completi inappuntabili, cuciti su misura, le cravatte portate con trasandata eleganza, il capello che non si muove se non per assecondare l’ondeggiamento del pensiero, il sorriso sicuro, inoffensivo, sincero, ne fanno un uomo di cui sembra facile fidarsi. Poi però, senza preavviso, si strappa il cuore con le mani e lo ostenta, rivelando le proprie ansie, le paure di chi si conosce fragile, impotente al cospetto del mistero; gli occhi allora si fanno rotanti, si cerchiano di rosso, batte il remo su chiunque s’adagia. C’è qualcosa che sfugge in questo signore alto e dinoccolato; la identifichi, provi a nominarla, non si lascia catturare. Ed è questo suo lato inafferrabile, operistico, che spazza via, d’incanto, ogni antipatia.