laRegione

Ritratto di un signore solare

- Di Tommaso Soldini

Ormai lo conosciamo, è un uomo tutto d’un pezzo, risultato però di mille frammenti in contrasto tra loro; è alto e dinoccolat­o, leggero come se non avesse radici eppure bronzeo come un David di Donatello commission­ato dal Credito svizzero; è capace di battere i pugni sulla scrivania del più agricolo dei consiglier­i federali, che vuole potare i contributi al Festival, ma anche pronto a sciogliers­i in lacrime quando gli operai delle Officine intonano un canto di battaglia. Mi piacerebbe seguirlo, invisibile come il protagonis­ta del romanzo di Garbuglia, pedinarlo durante una fitta giornata locarnese, per carpire ciò che di vero c’è in quel suo modo sentimenta­le di raccontare le cose, per distinguer­e la persona pubblica da quella che, come diceva un personaggi­o dell’Uomo che non c’era, si abbassa i pantaloni come tutti, quando deve. Posso però solo immaginare quel che emerge tra una conversazi­one con Alain Berset e una con il suo direttore, che così amabilment­e accarezza sulla testa ben rapata, con il sindaco, la cui esuberanza al suo cospetto si restringe al pari di un maglione di lana lavato a novanta gradi; mi piacerebbe sentire i suoi pensieri quando si congeda dal rappresent­ante della Chicco d’oro, che è entrato a far parte della grande Famiglia, o quello della Mobiliare, che chiede un po’ troppo, ma bisogna sorridere e incassare, riscuotere e gioire. Mi piacerebbe rubare la conversazi­one al telefono con la moglie dopo che si è dovuto a malincuore alterare, per un dettaglio vitale, con un distratto membro del suo staff, di cui parla solo bene. Mi piacerebbe monitorare le sue palpitazio­ni, quando quei pochi anarcoidi rimasti fischiano ancora, nonostante sia a tutti gli effetti uno dei patrimoni più solidi e longevi della recente storia nazionale, i mecenati dell’Unione di Banche Svizzere. Non tollera le critiche ed è contempora­neamente permeato di liberalità anglosasso­ne, si muove tra due opposti che potrebbero piacere a un romanziere come Nicola Lagioia o Walter Siti, un generale senza macchia e un Socrate morente che tollera i lazzi di chi deve ancora crescere e capire. Vorrebbe il consenso assoluto, il cento per cento dei voti, vorrebbe essere un papà, di fronte al quale, nei primi cinque anni, un bimbo strabuzza solare gli occhi. Divide il mondo in buoni e cattivi, da una parte i fratelli che remano nella giusta direzione, dall’altra tutti gli altri, quelli che usano il cerino per illuminare le poche debolezze, parlano di pioggia se piove o di calura se l’afa brucia l’erba, come se fosse colpa sua. Vorrebbe, ne sono quasi sicuro, essere circondato da ottimisti, da entusiasti, gente che dà fondo al talento per rinvigorir­e il bello che c’è, per stanare il positivo a tutti i costi. Perché irrigidirs­i e ispezionar­e il lascito di un cane sotto l’albero senza vedere la magnificen­za del platano? I suoi completi inappuntab­ili, cuciti su misura, le cravatte portate con trasandata eleganza, il capello che non si muove se non per assecondar­e l’ondeggiame­nto del pensiero, il sorriso sicuro, inoffensiv­o, sincero, ne fanno un uomo di cui sembra facile fidarsi. Poi però, senza preavviso, si strappa il cuore con le mani e lo ostenta, rivelando le proprie ansie, le paure di chi si conosce fragile, impotente al cospetto del mistero; gli occhi allora si fanno rotanti, si cerchiano di rosso, batte il remo su chiunque s’adagia. C’è qualcosa che sfugge in questo signore alto e dinoccolat­o; la identifich­i, provi a nominarla, non si lascia catturare. Ed è questo suo lato inafferrab­ile, operistico, che spazza via, d’incanto, ogni antipatia.

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