Interminabili estati
Ecco la riflessione augurio che il filosofo Fabio Merlini ha rivolto a metà giugno agli studenti ‘maturati’ del Liceo di Bellinzona e che vale per chi si appresta a trascorrere lunghe e interminabili vacanze estive. Un’occasione per riconoscere che esiste anche un altro modo di stare nel tempo, non solo in quello iperattivo indotto dalle nostre agende sovraffollate.
Chi ha avuto la fortuna, l’immensa fortuna, di disporre appieno, quando ciò era ancora possibile, delle vacanze scolastiche estive; di poterne approfittare per tutto l’arco della loro durata, sa benissimo a che cosa corrisponda l’immagine del tempo sospeso. Oggi, in piena accelerazione, suona persino bizzarro osservare che il tempo, così saturato da occupazioni e sempre in difetto rispetto alla loro esecuzione, possa anche arrestarsi. Voglio dire: manifestarsi attraverso una parvenza di sospensione che inibisce eccitazione e iperattivismo, fino a rallentare incredibilmente la sua corsa.
Tempo sospeso
Per molti giovani del passato (e mi auguro anche di oggi), l’estate è stata anche l’occasione di sperimentare questa particolare qualità del tempo. Una percezione che le odierne tecnologie della distanza, con la loro equivoca promessa di immediatezza, tendono invece a inibire. Con “tempo sospeso” intendo dunque quel fenomeno per cui i molteplici movimenti e sussulti che animano l’ambiente circostante si bloccano, così che tutto risulti come incantato, circondato da un silenzio immobile. L’immagine più perspicua di una condizione di questo tipo sono le piazze dei quadri di De Chirico, oppure il montaliano “meriggiare pallido e assorto”. Mentre se guardiamo alla mitologia greca, la figura che incarna la percezione estatica del tempo è Orfeo: il divino cantore, capace persino di incantare e quindi di sovvertire le leggi del mondo naturale grazie alle modulazioni della sua voce e al suono della sua cetra. Ancora più seducenti e irresistibili del richiamo delle sirene. Proprio come accadde presso lo stretto delle Simplègadi. Quando l’Argonau- ta Orfeo, secondo alcune versioni del mito, riuscì in una incredibile impresa: arrestare con una melodia celeste l’imprevedibile movimento degli scogli posto a protezione del passaggio, in modo da lasciare transitare la nave in missione verso il Vello d’oro.
Apprezzare il sentimento della noia
Il mio ricordo delle vacanze, una volta concluso l’anno scolastico, è legato soprattutto alla percezione di una lunga, interminabile estate. Dove a giornate terse dai colori spumeggianti in cui tutto pareva ravvicinato e a portata di mano (soprattutto dopo un temporale), si alternavano momenti dalla luce sfocata, dominate da una calura immobilizzante. Giornate in cui le cose, ma anche le energie, perdevano il loro lucore, aderendo così ad una omogeneità di toni opalescenti e di ritmi rallentati, lievemente malinconici. Come se per qualche prodigio, il mondo che in quegli anni poteva ancora non “dare pensiero” fuoriuscisse improvvisamente dalla sua spensieratezza, cessando di risplendere dei colori e degli odori dell’estate per meglio assecondare l’umore di un vissuto di immobilità, che solo molto più tardi avrei imparato ad apprezzare: il sentimento della noia. Ma la noia arrivava in un secondo tempo, prima bisognava aver sperimentato nell’inerzia del paesaggio la staticità stessa del tempo, la sua sospensione, una vaga immagine dell’eternità. In quei momenti, il mondo, il tuo mondo, sembrava sottrarsi all’abituale trantran. Oggetti, situazioni e paesaggi familiari mostravano un lato della loro esistenza che curiosamente inibiva il senso della quotidianità: non erano più loro. Allora, qualcosa dell’ordine dell’estraneità poteva fare capolino, in un silenzio che disincentivava l’interesse pratico nei loro confronti.
Al familiare subentrava l’estraneo
Al familiare subentrava l’estraneo. Non perché tu non li riconoscessi più, al contrario. Erano loro a farsi stranieri a loro stessi, proprio in virtù di questo fuoriuscire dal gioco di una abituale funzionalità. Il lago cessava di valere come occasione per immersioni rinfrescanti; il trampolino per quel tanto di emozioni che l’altezza garantiva al tuffatore ardito. E così, anche la sdraio “Lido” dal tubolare in acciaio zincato con l’inconfondibile tela rosso-mattone (un capolavoro degli anni Trena dei locarnesi Battista e Guido Giudici) non era più la moto da impennare in virtù della sua forma arrotondata o il destriero nervoso da cavalcare grazie alla elasticità della struttura. Erano solo ancora presenze immobili, poco definite e sospese in una apatia propizia (anche questo lo avrei scoperto solo più tardi) a quella attività inattiva che la nostra tradizione chiama, almeno a partire da Aristotele, “contemplazione”. Più che realtà esterne, uno stato d’animo; l’interiorità proiettata nell’esteriorità; lo specchio di un sentimento dell’esistenza indifferente all’operosità della vita, perché incantato dal pensiero stesso delle cose, dal loro farsi “pensose”.
Occasione per sostare presso di sé
In questo senso, l’estate rappresentava non solo il tempo del “portasi fuori”, dello stare il più possibile all’aria aperta, dalla mattina alla sera. Essa diventava, specie nelle prime ore meridiane, un’occasione straordinaria per sostare presso di sé e scoprire nello specchio del mondo circostante come cose e paesaggi sapessero anche trasformarsi in una espansione dell’anima, e non solo in occasioni di divertimento ed evasione. Nella sospensione del tempo generata, oltre che dalla predisposizione “naturale” alla contemplazione, anche da alcune condizioni atmosferiche (la calura con i suoi effetti ottici e di intorpidimento), era dunque possibile scoprire come mondo interno e mondo esterno riuscissero ad armonizzarsi e risuonare all’unisono. Sovente, tutto ciò si accompagnava a un dolce sentimento malinconico: una più acuta intuizione, mai però del tutto esplicitata, del comune destino di finitudine e, perché no, di insensatezza che attraversa l’esistenza di entrambi. Ecco, era esattamente questo il momento in cui poteva insinuarsi la noia. L’interminabile estate delle vacanze, con le giornate libere dagli impegni scolastici, conferiva all’ozio il suo senso più pregnante, quello di favorire la riflessione, nel senso preciso del reflectere animum, del ripiegarsi in sé stessi, del rivolgere l’attenzione al proprio interno. Attraverso l’immobilità del mondo esterno, diventava così possibile fare esperienza del sentimento dell’interiorità, di cui la noia è una componente centrale. Quando la sperimenti, la noia è percepita al più come un fastidio. Annoiarsi significa non riuscire più a mettere in moto il mondo, percepire il tempo come una misura dilatata in cui il trascorrere delle ore rallenta paurosamente e nulla riesce più a suscitare interesse: una dilatazione che si fa appunto sospensione. Ma proprio in questi momenti, diventa anche possibile comprendere come cose e oggetti siano accomunati dallo stesso non-senso che determina anche il vuoto, l’infondato che ci portiamo dentro inevitabilmente, come marca stessa della condizione umana. Proprio quel vuoto interiore che Agostino avrebbe voluto riempire della infinita presenza di Dio. La vacuità che si lega alla “condizione annoiata” a esprimere il fatto che individuo e mondo definiscono un’unica totalità, prima che intervenga qualsiasi differenziazione. Sfuggire la noia, evitare quello che gli antichi definivano tedium vitae, significa precludersi questa comprensione dell’indifferenziato, con il suo corollario. E cioè che senso e significato intervengono sempre e solo a posteriori, nel medium della differenziazione. Epoche come la nostra, che vivono in una costante estroversione, poiché qualcosa (immagini, messaggi, comunicazioni, informazioni) ci chiede sempre di uscire allo scoperto, inibiscono proprio questa verità. E così facendo, indeboliscono il nostro sentimento dell’interiorità. È la vita temporalizzata da una continua progettualità che non dà tregua, dove per l’individuo non è mai il momento giusto per dedicarsi all’incontro con se stesso, preso com’è dalla socializzazione mediatica e dai suoi imperativi. Sottrarsi a questo imperio dello stare continuamente “fuori di sé” richiede, oggi, esercizio e attenzione, oltre che una forte autodeterminazione. Poter fare esperienza di questo tempo sospeso è certamente un lusso, che non dovrebbe però essere precluso a nessuno. È l’augurio che ho rivolto qualche settimana fa agli allievi “maturati” del Liceo di Bellinzona, e che qui desidero rivolgere a tutti i giovani e non solo a loro. Tenere presente questa lezione, che personalmente devo appunto alle lunghe, interminabili vacanze estive della mia gioventù, significa riconoscere che esiste anche un altro modo di stare nel tempo, non solo quello indotto dalle nostre agende sovraffollate. Poter ricordare questa straordinaria qualità sospensiva del tempo, se non proprio riuscire a riviverla, indulgere nel suo ricordo, oppure prestare attenzione alla sua narrazione, mi sembra un ottimo antidoto contro l’ossessione contemporanea per l’azione orientata all’innovazione, a ogni costo. Sappiamo purtroppo a che cosa conduce, prima o dopo, un’azione orfana di riflessione. L’impareggiabile Borges, credo volesse dire qualcosa di non molto diverso quando parlava del tempo come di un fiume che ci trascina, se non comprendiamo che il fiume siamo noi.