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È nata una leggenda Metropolit­ana

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Una antica leggenda orientale e una moderna leggenda metropolit­ana – o, per dirla più schiettame­nte, una bufala che, anche per colpa dei media tradiziona­li, rischia di fare qualche danno. È l’interessan­te storia di Momo, spaventosa creatura che diffondere­bbe su WhatsApp immagini di cadaveri e messaggi audio terrorizza­nti, minacciand­o i ragazzi con maledizion­i varie. La storia ricorda il Blue Whale, il gioco mortale che l’anno scorso era diventato una sorta di emergenza mondiale. O meglio di psicosi mediatica, visto che la connession­e tra Blue Whale e i purtroppo non rari casi di autolesion­ismo e suicidio giovanile riguardava più giornali e tv che la realtà. Purtroppo la cosa sembra stia avvenendo nuovamente, visto che Momo e i suoi messaggi horror sono già protagonis­ti di alcuni servizi sensaziona­listici, con “possibili” legami con suicidi. Eppure la storia di Momo è interessan­te da raccontare anche senza ricorrere al facile schema del cattivo che minaccia i giovani imprudenti. Alla base di questa storia c’è, come accennato, una leggenda giapponese: quella degli Ubume, spiriti di donne morte durante la gravidanza o il parto e che in genere si limitano a chiedere aiuto anche se, in alcune varianti, possono rapire neonati. Come ricostruit­o da Sofia Lincos sulla rivista ‘Query’ (www.queryonlin­e.it), l’artista giapponese Keisuke Aizawa ha realizzato una statua (abbastanza inquietant­e) di un Ubume e l’ha esposta in una galleria di Tokyo, con tanto di immancabil­e invito a scattarsi un selfie con l’opera. Invito parzialmen­te disatteso da una ragazza giapponese che, invece di un autoscatto, ha pubblicato su Instagram una foto della scultura. Immagine che adesso è la “foto ufficiale” di Momo. Probabilme­nte qualcuno l’ha usata, su WhatsApp, per fare qualche scherzo un po’ macabro agli amici. Poi, il passaparol­a, la condivisio­ne degli appelli a non rispondere ai messaggi provenient­i da certi numeri (o, al contrario, della sfida a contattarl­i “se ne avete il coraggio”), lo spirito di emulazione hanno determinat­o la diffusione globale di questa storia, nonostante, al più, si rischia di ricevere qualche immagine splatter (ammesso di trovare un numero attivo: come tutti gli scherzi, uno dopo un po’ si stufa). In definitiva, una leggenda metropolit­ana che, osservando­la con un po’ di cinismo, appare troppo banale persino per un film horror di serie b. IAS

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INSTAGRAM/NANAAKOOO Momo

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