Comicità come catarsi
Incontro con Bruno Dumont, Pardo d’onore, su cinema, racconto, bellezza, vita Oltre al cinema, ha fatto una serie tv, anzi due. E si è messo in testa di trovare gli attori nelle liste di collocamento, per dare loro un lavoro. Dumont è un tipo interessant
Chapeau! «Erano tutti dilettanti, ho preparato per loro cose che potevano fare. Per me lavorare con loro è stato pesante e molto difficile. Non si può sradicare un attore che viene dalla strada. Per il film ho scelto dei disoccupati dalle liste di collocamento. Qualcuno ha accettato, altri no, e altri non riuscivano a stare davanti alla macchina da presa. Ho voluto dare loro un lavoro, una sicurezza sociale, seppure per un breve periodo. Le persone hanno bisogno di sicurezza e io sentivo il bisogno di una ecologia della produzione».
Come in un fumetto
Chi parla è Bruno Dumont, tre volte laureato a Cannes, che, sbarcato per la prima volta a Locarno, ha portato in Piazza Grande la sua nuova miniserie per la tv: ‘Coincoin et les z’inhumains’, seguito di un’altra miniserie. Gli chiediamo se il suo sguardo in queste serie abbia tratto ispirazione da Jacques Tati. Lui sembra aspettare la domanda: «Sì, Tati è per me un maestro, un gran poeta, il creatore di un mondo tra il serio e il comico, mescolati con equilibrio, dove l’irreale è la base. Nel mio film assumo questa idea, recuperando anche il mondo di Laurel e Hardy che la retrospettiva quest’anno permette di recuperare. Vario all’interno della tragicommedia, con la gravità delle situazioni pericolose; c’è un’invasione di extraterrestri, e l’esasperazione della forma dei corpi. Non c’è all’interno del film una vera storia d’amore, perché non c’è amore tra personaggi che vivono senza una struttura psicologica, ma ancorati alla loro grezza fisicità: ho voluto fossero come dei fumetti, come un cartone animato. Sono figure non finite per costringere lo spettatore a finirle, a lasciarsi coinvolgere nel film». Certo che, pur indefinite, diverse figure sono pregne di significato anche politico, come i due preti che non nascondono la loro pedofilia. La risposta è pronta: «Sì, c’è bisogno di non tacere, il numero dei preti accusati di pedofilia ha raggiunto livelli inaccettabili, lo stesso noi facciamo finta che non sia un argomento su cui ragionare. E lo stesso succede con il problema dei migranti, delle droghe, ci siamo abituati a stare silenziosi evitando di impegnarci». Perché ha ripreso in mano questa serie e, dopo quattro anni, come l’hanno presa i suoi attori? «Tutti hanno subito accettato, sembrava non aspettassero altro. Ero io che avevo bisogno di tempo, di aspettare quattro anni, per rivedere i giovani più cresciuti e gli adulti più vecchi. Ho aspettato una evoluzione, con la paura di scoprire se con il tempo erano migliorati o peggiorati. Nella prima serie mi serviva dare un’impressione di ingenuità, qui li ho sgrezzati, soprattutto i due gendarmi protagonisti: il comandante Van der Weyden, un genio burlesco pieno di click, e il suo inferiore Carpentier che guarda spesso in camera: sono un po’ i miei Laurel e Hardy».
Ci vuole il Carnevale
Non ha avuto paura di andare oltre? «No, non ho paura della follia, la cerco. Noi esseri umani siamo stravaganti, e il cinema deve entrare nella follia. Quella del comandante nel film è come quella del buffone del re, che nasconde tra le righe saggezza. Ci sono troppe cose che nella normalità non possiamo dire ed è per questo che abbiamo bisogno del Carnevale, di un continuo Carnevale, per dire finalmente le cose. Il cinema ci rende liberi, quello che fanno cinema e tv è un lavoro di purga, una necessità di catarsi». E adesso, dopo ‘Jeannette, l’enfance de Jeanne d’Arc’, sta lavorando a ‘Jeanne’, la visione di Giovanna d’Arco: «Ho in mente un grande lavoro sulla musica, fondamentale con le battaglie e il processo. Sento il bisogno però di non puntare troppo sul tragico, di trovare qualcosa di comico; anche in questa storia che mi permette di dire della condizione umana, del sacrificio personale, dell’intolleranza, dei dogmi che appesantiscono la Chiesa”.