laRegione

Monumento al nulla

In Concorso ‘La flor’, l’interminab­ile film argentino di 808 minuti

- Di Ugo Brusaporco

Ci abbiamo provato, ma la visione del film di Mariano Llinás ci ha atterriti oltre ogni misura. Resta un enigma: perché metterlo in Concorso?

Quello che ci ha incuriosit­o è stata la sinossi del catalogo che, riassumend­o ‘La Flor’ di Mariano Llinás (il film argentino in concorso e presentato in vari capitoli, per un totale di 808 minuti), recita: “Un film-omaggio alla storia del cinema, attraverso sei episodi ispirati alle diverse forme dell’arte cinematogr­afica. Ogni episodio è contraddis­tinto da un genere diverso. Il primo ricorda i film di serie B, quelli che una volta gli americani giravano ad occhi chiusi e che ora sembrano non saper più fare. Il secondo è una sorta di musical con un tocco di mistero. Il terzo è un film di spionaggio. Il quarto è difficile da descrivere. Il quinto trae ispirazion­e da un vecchio film francese. L’ultimo, ambientato nell’Ottocento, racconta la storia di alcune donne, tenute prigionier­e dagli indiani, che tornano dal deserto dopo molti anni”.

All’ombra di Heimat

Chiaro che la parte che più ci interessav­a vedere era la quarta: “difficile da descrivere”. Su un quotidiano argentino, a proposito di questo film non è mancata una citazione da ‘I Miserabili’ di Victor Hugo: “Questo libro è un dramma il cui primo personaggi­o è l’infinito. L’uomo è il secondo”. E a questo abbiamo pensato guardando questa parte di film che ci ha riportato ai film sperimenta­li degli anni 70 e 80 dello scorso secolo, a un autore in particolar­e, a quel Sarenco (al secolo Isaia Mabellini) che alla Mostra di Venezia del 1985 presentò il suo ‘Collage’, primo di cinque titoli, di un cammino unico dove il cinema era concepito, come questo di Mariano Llinás, come espression­e artistica. Con una differenza fondamenta­le: che l’argentino ha tolto ogni idea

politica al suo dire, segnando così lo stato globale del XXI secolo, orbo di ideologie e quindi di libertà, base del cinema sperimenta­le. Qui ci troviamo di fronte a un regista in crisi d’ispirazion­e e in ambasce economiche. Ha in mente un film ambientato in Canada, con un gruppo di attrici che si travestono da giubbe rosse, trapper e squaw. Ma per prima cosa vuole cogliere la nascente primavera, inseguendo l’infloresce­nza degli alberi, lentamente maturano in lui scene da girare, scene che si materializ­zano anche nella follia di una scopa che diventa veicolo per una strega. Inutile inseguire una trama, la trama è il fare cinema, che non è fare un film; il

film è quello che vediamo noi, se sappiamo amare il cinema e non condiziona­rlo al nostro pensare. Ma proprio per questo ci troviamo in difficoltà a ripensare a come comincia questa storia, al film di serie B americano, al Musical, al film di spionaggio: non troviamo un senso nel perdere le ore per una lezione sul veleno degli scorpioni, su una mummia e un gatto assassino, su una storia di servile e finto amore. Il regista e il direttore del Festival giocano sulla lunga durata del film, come se durata volesse dire qualità. ‘Heimat – Eine deutsche Chronik’ di Edgar Reitz durava 924 minuti, in molti l’abbiamo visto più di tre volte perché è un capolavoro al di là della durata. E ancora si ha voglia di vederlo perché canta Cinema, cosa che non fa ‘La Flor’: qui ci troviamo naufraghi in un nulla che dovremmo celebrare. Certo, non possiamo pretendere che il regista, che nel 1984 aveva 9 anni, ricordi l’immensità del film di Reitz. Ma evitiamo il confronto, quella di Llinás è un’idea cinematogr­afica, a parte il quarto episodio, ben ancorata a una concezione cinematogr­afica commercial­e, che la durata non tradisce, anzi amplifica. Ci si chiede allora perché portare in concorso questo ‘La Flor’, la cui prima parte era già stata vista nel 2016, il 23 novembre, e la cui programmaz­ione ha messo in difficoltà la visione di altri film in Concorso.

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Da svenire, anche in sala (e la lunghezza non c’entra)

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