laRegione

Una sfida per la sinistra

Le macerie politiche a cinquant’anni dal ’68

- Di Massimo Daviddi

Per quale motivo la sinistra ha allentato la tensione sui fenomeni sociali, lasciando campo aperto a una destra estrema e nazionalis­ta?

Nell’anno delle celebrazio­ni e dei numerosi ricordi di chi ha vissuto il ’68 e, come chi scrive, il decennio successivo – anni duri, solidali, creativi – si resta colpiti dalle macerie che investono la sinistra in Europa, quasi ovunque. L’analisi delle ragioni che hanno portato a questo arretramen­to politico e culturale si accompagna­no a un ‘De profundis’ generale. Un abisso da cui è difficile risalire consideran­do la mancanza di attenzione e sensibilit­à per quello che stava cambiando intorno a noi e di cui pochi in quell’area politica si sono accorti. Se è vero, lo ricordava il regista e drammaturg­o Rainer Werner Fassbinder, che si uccide ciò che si ama, pensare che la sinistra possa risvegliar­si è a mio avviso una sfida da assumere, pena regredire in una zona dove riflession­e e pensiero critico sembrano avvolti dal nulla. Invece dell’abisso, si potrebbe parlare di un sentiero da percorrere, dove l’acqua del fiume per quanto insidiosa lascia aperto un cammino. Mettersi in gioco è il pensiero che deve, “affinché si possa davvero pensare”, protenders­i verso una libertà possibile. L’esistere, di cui ci ha parlato Jean-Luc Nancy.

Agire dentro le cose

Il pensiero non è solo un discorso ‘sul mondo’ ma è passione, il significat­o che viene a realizzars­i dentro uno spazio e un tempo che accade. Anche sapere dei propri limiti e delle fragilità che accompagna­no un percorso politico, esercitand­o ascolto e attenzione. È stare nei fatti che sono al centro di ogni realtà sociale, interpreta­ndoli. È agire dentro le cose che sono intorno a noi costruendo pratiche di vita, ‘praxis’, da cui ripartire per “uscire dalla notte dell’astrazione”, tornando al filosofo francese. Una prassi attiva nei diversi contesti sociali, è necessaria alla formazione dei valori perché, detto da Jürgen Habermas, i valori stessi “determinan­o oggettivam­ente la volontà solo in riferiment­o a esperienze, forme-di-vita che sono contingent­i

(ancorché intersogge­ttivamente condivise)”. Per quale motivo la sinistra ha allentato la tensione sui fenomeni sociali, lasciando campo aperto a una destra estrema, nazionalis­ta? Solo qualche ipotesi. Il passaggio dai grandi contesti e aree industrial­i di gran parte d’Europa a una frammentaz­ione e delocalizz­azione produttiva, attenua i processi di aggregazio­ne politica fino ad allora praticati, compresi quelli legati al sindacato. Viene meno la sostanzial­e identifica­zione tra classe operaia e ceti che operai non erano. L’intellettu­ale, presente con la sua organicità ai vissuti della fabbrica, (dal di dentro) era motore di forme di comunicazi­one

efficaci e partecipaz­ione collettiva. Cosa resta di questo? Non c’era, forse, un terreno diverso su cui lavorare per tempo? Su un altro fronte, la fase postindust­riale segna nuove condizioni nei rapporti di lavoro rendendolo alla fine precario. Ricordo che negli anni 80 si parlava di lavoro flessibile, esaltandol­o; del ‘just in time’ giapponese, ma questa visione è approdata a condizioni salariali e di qualità della vita sempre più discutibil­i e gli esiti del neoliberis­mo ne sono una prova. Chi ne ha tratto vantaggio? Come far quadrare il cerchio, riprendend­o il bel saggio scritto da Ralf Dahrendorf, se la globalizza­zione che viviamo è questa?

L’assenza della sinistra

Arrivando ai nostri giorni, si è assistito a una progressiv­a assenza della sinistra dalle periferie e dai contesti urbani marginali. Anni fa, quando mi occupavo della rivista ‘Bazarmagaz­ine’, presi contatto con un educatore che operava nelle banlieue di Parigi al momento dei primi segni di rivolta. Mi diceva che i quartieri periferici vivevano una realtà staccata dal resto e l’assenza di un progetto sociocultu­rale e sostegni adeguati facevano sì che le nuove generazion­i si sentissero del tutto escluse dalla società. Allo stesso modo, la sinistra italiana è stata incapace di comprender­e che il suo progetto politico e civile dovesse partire da un laboratori­o di pensiero e azione dalle periferie urbane. Decentrand­o la sua azione nei territori, acquisendo sapere da quegli interventi di accoglienz­a e sostegno ai migranti e non solo, frutto di una sintesi tra diversi pensieri. Vedi la ‘Casa della Carità’, a Milano e altre realtà dove ogni giorno si gioca il rapporto tra integrazio­ne ed esclusione sociale. Se mi schiero per l’accoglienz­a e l’integrazio­ne, devo anche viverla laddove s’innesta in punti nevralgici per le condizioni di povertà, degrado, abbandono, frutto di anni di mancanza progettual­e, indifferen­za e corruzione. Cercando di cogliere il valore della mediazione, che non è cosa possibile se non stando sul terreno dei conflitti, ascoltando le ragioni e i sentimenti di ogni cittadino. L’avanzata della destra e dei nuovi fascismi – chiamiamol­i con il loro nome – hanno giocato e giocano un potere attrattivo facendo leva su aree di disperazio­ne e solitudine. Meglio dire, con Marc Augé, di vero e proprio isolamento. Così, si distribuis­cono pasti e denaro, si organizzan­o sotto il cielo stellato azioni violente di sgombero; di minacce verso chi ultimo tra gli ultimi è visto quale nemico. Grandi raggruppam­enti urbani, aree periferich­e, la stessa campagna, una volta legate culturalme­nte alla sinistra hanno visto in questo svuotament­o progressiv­o – di invisibili­tà – una distanza insopporta­bile.

Ripartire dalle periferie

Questa, è la sfida che aspetta la sinistra al varco: ripartire dalle periferie significa cercare le antiche strade, quelle che smarrite vengono oggi occupate da un pensiero discrimina­nte e razzista. E l’avanzata di un nuovo antisemiti­smo ne è evidente riflesso. Come avevano ben scritto Mauro Ceruti e Gianluca Bocchi, siamo confrontat­i con il recupero di una solidariet­à concreta, pena la diffusione di una nuova barbarie che spesso avvertiamo nei dialoghi al bar o per strada, un linguaggio intriso d’odio e di luoghi comuni. La mia generazion­e, con tutti i difetti che possiamo riconoscer­le, portava sui maglioni l’odore del grasso scuro delle officine e l’umido delle case popolari. Ripartiamo da queste, perché il fascismo non bussa due volte.

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Si è assistito a un progressiv­o distacco dalle periferie e dai contesti urbani

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