Una sfida per la sinistra
Le macerie politiche a cinquant’anni dal ’68
Per quale motivo la sinistra ha allentato la tensione sui fenomeni sociali, lasciando campo aperto a una destra estrema e nazionalista?
Nell’anno delle celebrazioni e dei numerosi ricordi di chi ha vissuto il ’68 e, come chi scrive, il decennio successivo – anni duri, solidali, creativi – si resta colpiti dalle macerie che investono la sinistra in Europa, quasi ovunque. L’analisi delle ragioni che hanno portato a questo arretramento politico e culturale si accompagnano a un ‘De profundis’ generale. Un abisso da cui è difficile risalire considerando la mancanza di attenzione e sensibilità per quello che stava cambiando intorno a noi e di cui pochi in quell’area politica si sono accorti. Se è vero, lo ricordava il regista e drammaturgo Rainer Werner Fassbinder, che si uccide ciò che si ama, pensare che la sinistra possa risvegliarsi è a mio avviso una sfida da assumere, pena regredire in una zona dove riflessione e pensiero critico sembrano avvolti dal nulla. Invece dell’abisso, si potrebbe parlare di un sentiero da percorrere, dove l’acqua del fiume per quanto insidiosa lascia aperto un cammino. Mettersi in gioco è il pensiero che deve, “affinché si possa davvero pensare”, protendersi verso una libertà possibile. L’esistere, di cui ci ha parlato Jean-Luc Nancy.
Agire dentro le cose
Il pensiero non è solo un discorso ‘sul mondo’ ma è passione, il significato che viene a realizzarsi dentro uno spazio e un tempo che accade. Anche sapere dei propri limiti e delle fragilità che accompagnano un percorso politico, esercitando ascolto e attenzione. È stare nei fatti che sono al centro di ogni realtà sociale, interpretandoli. È agire dentro le cose che sono intorno a noi costruendo pratiche di vita, ‘praxis’, da cui ripartire per “uscire dalla notte dell’astrazione”, tornando al filosofo francese. Una prassi attiva nei diversi contesti sociali, è necessaria alla formazione dei valori perché, detto da Jürgen Habermas, i valori stessi “determinano oggettivamente la volontà solo in riferimento a esperienze, forme-di-vita che sono contingenti
(ancorché intersoggettivamente condivise)”. Per quale motivo la sinistra ha allentato la tensione sui fenomeni sociali, lasciando campo aperto a una destra estrema, nazionalista? Solo qualche ipotesi. Il passaggio dai grandi contesti e aree industriali di gran parte d’Europa a una frammentazione e delocalizzazione produttiva, attenua i processi di aggregazione politica fino ad allora praticati, compresi quelli legati al sindacato. Viene meno la sostanziale identificazione tra classe operaia e ceti che operai non erano. L’intellettuale, presente con la sua organicità ai vissuti della fabbrica, (dal di dentro) era motore di forme di comunicazione
efficaci e partecipazione collettiva. Cosa resta di questo? Non c’era, forse, un terreno diverso su cui lavorare per tempo? Su un altro fronte, la fase postindustriale segna nuove condizioni nei rapporti di lavoro rendendolo alla fine precario. Ricordo che negli anni 80 si parlava di lavoro flessibile, esaltandolo; del ‘just in time’ giapponese, ma questa visione è approdata a condizioni salariali e di qualità della vita sempre più discutibili e gli esiti del neoliberismo ne sono una prova. Chi ne ha tratto vantaggio? Come far quadrare il cerchio, riprendendo il bel saggio scritto da Ralf Dahrendorf, se la globalizzazione che viviamo è questa?
L’assenza della sinistra
Arrivando ai nostri giorni, si è assistito a una progressiva assenza della sinistra dalle periferie e dai contesti urbani marginali. Anni fa, quando mi occupavo della rivista ‘Bazarmagazine’, presi contatto con un educatore che operava nelle banlieue di Parigi al momento dei primi segni di rivolta. Mi diceva che i quartieri periferici vivevano una realtà staccata dal resto e l’assenza di un progetto socioculturale e sostegni adeguati facevano sì che le nuove generazioni si sentissero del tutto escluse dalla società. Allo stesso modo, la sinistra italiana è stata incapace di comprendere che il suo progetto politico e civile dovesse partire da un laboratorio di pensiero e azione dalle periferie urbane. Decentrando la sua azione nei territori, acquisendo sapere da quegli interventi di accoglienza e sostegno ai migranti e non solo, frutto di una sintesi tra diversi pensieri. Vedi la ‘Casa della Carità’, a Milano e altre realtà dove ogni giorno si gioca il rapporto tra integrazione ed esclusione sociale. Se mi schiero per l’accoglienza e l’integrazione, devo anche viverla laddove s’innesta in punti nevralgici per le condizioni di povertà, degrado, abbandono, frutto di anni di mancanza progettuale, indifferenza e corruzione. Cercando di cogliere il valore della mediazione, che non è cosa possibile se non stando sul terreno dei conflitti, ascoltando le ragioni e i sentimenti di ogni cittadino. L’avanzata della destra e dei nuovi fascismi – chiamiamoli con il loro nome – hanno giocato e giocano un potere attrattivo facendo leva su aree di disperazione e solitudine. Meglio dire, con Marc Augé, di vero e proprio isolamento. Così, si distribuiscono pasti e denaro, si organizzano sotto il cielo stellato azioni violente di sgombero; di minacce verso chi ultimo tra gli ultimi è visto quale nemico. Grandi raggruppamenti urbani, aree periferiche, la stessa campagna, una volta legate culturalmente alla sinistra hanno visto in questo svuotamento progressivo – di invisibilità – una distanza insopportabile.
Ripartire dalle periferie
Questa, è la sfida che aspetta la sinistra al varco: ripartire dalle periferie significa cercare le antiche strade, quelle che smarrite vengono oggi occupate da un pensiero discriminante e razzista. E l’avanzata di un nuovo antisemitismo ne è evidente riflesso. Come avevano ben scritto Mauro Ceruti e Gianluca Bocchi, siamo confrontati con il recupero di una solidarietà concreta, pena la diffusione di una nuova barbarie che spesso avvertiamo nei dialoghi al bar o per strada, un linguaggio intriso d’odio e di luoghi comuni. La mia generazione, con tutti i difetti che possiamo riconoscerle, portava sui maglioni l’odore del grasso scuro delle officine e l’umido delle case popolari. Ripartiamo da queste, perché il fascismo non bussa due volte.