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L’Africa e il Ghetto visti con gli occhi di Markus Imhof

Incontro con Markus Imhof, con il suo ‘Eldorado’ in corsa per l’Oscar Dai salvataggi in mare al Ghetto di Rignano, dalla dogana di Chiasso al sogno elvetico. Imhof racconta il Viaggio dei migranti e il ricatto al Continente Nero...

- Di Claudio Lo Russo

Quei 12 ragazzi morti in un incidente nei pressi di Foggia, pochi giorni fa, dopo essersi rotti la schiena a raccoglier­e pomodori per pochi euro, stavano rientrando nel Ghetto di Rignano, quanto di più simile a una bidonville africana in Europa, a pochi chilometri dalle spiagge su cui soggiornan­o i turisti. Nel Ghetto, dopo che i “caporali” dello sfruttamen­to gli avevano rotto la macchina da presa, Markus Imhof ha introdotto le sue telecamere nascoste. Ce lo mostra in ‘Eldorado’, film svizzero candidato all’Oscar, nel capitolo dedicato all’accoglienz­a italiana ai migranti. In un lavoro durato cinque anni, ha filmato anche i salvataggi in mare dei migranti che s’imbarcano in Libia e l’accoglienz­a che trovano in Svizzera, se e quando passano il confine.

Se si amano gli insetti, forse si possono amare anche gli esseri umani in pericolo

Ad ottobre Imhof sarà ospite del Film Festival Diritti Umani a Lugano, dove riceverà il Premio Diritti Umani per l’Autore, istituito quest’anno. Intanto lo abbiamo incontrato a Locarno, fedele a se stesso e al proprio sguardo sulle cose quando si dice felice della selezione per l’Oscar, perché così forse si attirerà un po’ di attenzione su questi temi. Partiamo dall’Africa di cui non si parla mai, ma che, dopo secoli di sfruttamen­to, presenta il conto alla Storia: «Oggi i migranti vengono sfruttati dalla mafia in Italia per raccoglier­e i pomodori che poi noi mangiamo sulla pizza, senza accorgerci o senza voler sapere. Questi pomodori vengono esportati anche in Africa, impedendo una produzione locale che costerebbe di più di quella sovvenzion­a-

ta europea. Così pure, togliendo i dazi sui prodotti a base di latte, noi che ne produciamo troppo lo possiamo vendere in Africa a un prezzo inferiore di quello del poveraccio che, espulso dalla Svizzera, ha investito i soldi dell’aiuto di ritorno nell’acquisto di due mucche. Aiutarli a casa loro vuol dire iniziare a non imporre contratti che impediscon­o agli africani di avere una vita dignitosa». In Svizzera viene garantita un’accoglienz­a migliore? «Pensiamo alla ragazza eritrea, Rahel, che nel film vediamo nella casa anziani, dove la sua presenza è amata. Ora ha perso il diritto di lavorare, deve vivere con 8 franchi al giorno ma non può essere rispedita indietro: è come un’auto senza targhe. Se fosse stata violentata in Eritrea avrebbe l’asilo, siccome le è successo in Libia non conta: ma il suo trauma resta. Intanto investiamo in robot per le case anziani: io preferirei un essere umano a darmi una mano». Nel film Imhof riporta a galla la propria esperienza personale, quando negli anni 40 la sua famiglia ha ospitato una bambina profuga di guerra italiana, Giovanna, divenuta come una sorella (e morta di malattia a 14 anni, dopo essere stata costretta a rientrare a Milano). Quando ha avuto l’intuizione di intrecciar­e il presente al suo passato? «Nella richiesta di autorizzaz­ione alla Marina italiana, ho accennato a lei, ma non pensavo che avrebbe fatto parte del film. Poi, discutendo con i produttori, ripensando a lei ho iniziato a piangere... Così mi hanno tirato fuori i segreti del cuore, dandomi il coraggio di farli vedere. Ho pensato che lì c’era una soluzione a un problema attuale, da bambino so di aver partecipat­o a una soluzione positiva». Osservando ciò che accade oggi, questa relazione fra presente e passato che cosa ha rivelato al suo sguardo? «Solo alla fine degli anni 60 ho scoperto che la Svizzera era colpevole di 23mila morti, profughi ebrei respinti durante la guerra. Quello che mi colpisce è che anche oggi non si riesce a trovare un accordo di solidariet­à a livello internazio­nale. Si sarebbe potuto fare di più per evitare l’Olocausto, oggi siamo a un punto simile: ciascuno guarda il proprio giardino. Ma se buttiamo via i nostri valori europei, abbiamo già perso: è un suicidio culturale». Perché vedere questo film? «Ho fatto un film sulle api, un grande successo. Se si amano gli insetti, forse si possono amare anche gli esseri umani in pericolo».

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