laRegione

La trappola della fiscalità

- Di Daniel Ritzer

Il dibattito attorno alle cifre del preconsunt­ivo 2018 e sulla prospettiv­a di una seconda tappa di riforme fiscali (che non a caso sono state annunciate due giorni prima della pubblicazi­one dei dati) verte su due argomenti principali. Il primo, pratico e fondamenta­le, è di tipo eticosocia­le. Il secondo, più complesso, riguarda la teoria economica che sottostà alle mosse della politica. Andiamo con ordine. Oggi si celebrano due anni consecutiv­i di surplus. Bene, ma: a quale prezzo? Soltanto quattro anni fa, ancora reduci dal collasso dell’economia mondiale del 2008, in un momento di dichiarata ‘penuria’, la discussion­e si concentrav­a sul freno al disavanzo. Nel 2016 le votazioni popolari, paventata la minaccia del deficit struttural­e dei conti pubblici, hanno accolto i tagli alla socialità (riduzione dei sussidi di cassa malati, innalzamen­to della soglia per accedere a prestazion­i sociali), uno dei pilastri della manovra governativ­a per il contenimen­to dei costi. Oggi il problema è invece la gestione degli avanzi di esercizio. Gli economisti sanno (anche se spesso non lo dicono) che troppi surplus sono, potenzialm­ente, tanto problemati­ci quanto i troppi deficit. ‘Le imposte vanno ridotte’, sostengono gli esponenti liberali. La giustifica­zione? Perché dobbiamo adeguarci ai cambiament­i a livello federale prospettat­i dal ‘Progetto fiscale 2017’. Problema, quello del Pf17, ancora tutto da capire. La domanda a questo punto diventa quasi scontata: come mai, ancora prima di andare nella direzione di beneficiar­e i grandi contribuen­ti, non si pensa a ripristina­re le misure sociali per i settori più bisognosi, sacrificat­e qualche anno prima in nome dell’austerità? E qui siamo, come si diceva prima, sul terreno dei principi etici e morali. ‘Sono punti di vista’, potrebbero ribattere i sostenitor­i degli sgravi. Altolà! Per una famiglia che vive con tre o quattromil­a franchi al mese, trovarsi con cinquecent­o franchi in meno di assegni integrativ­i è tutt’altro che un punto di vista. Ma la questione non si ferma qui. Bisogna affrontare il tema anche nella sua logica macroecono­mica. Mentre l’ortodossia neoliberal­e rivendiche­rà la necessità di creare sempre le migliori condizioni possibili per gli investitor­i, con lo scopo teorico di stimolare l’attività economica; dal keynesiani­smo in poi le correnti eterodosse definiscon­o la politica fiscale uno degli strumenti ‘anti-ciclici’, ovvero: gli sgravi possono servire a rilanciare l’attività quando il ciclo economico è in una fase di contrazion­e. In una fase di crescita (come quella attuale) il rischio è quello di sovrastimo­lare l’economia, andando quindi ad esaurire più in fretta del dovuto la fase espansiva del ciclo. Se consideria­mo inoltre che il livello di consumo della fascia alta dei contribuen­ti è, per definizion­e, vicino al punto di saturazion­e, una riduzione del moltiplica­tore d’imposta lascerebbe nelle loro mani denaro che verosimilm­ente andrebbe tesaurizza­to. Forse sarebbe più sensato pensare a una misura, socialment­e più equa ed economicam­ente più proficua, che ridia potere d’acquisto alle fasce più deboli; risorse che andrebbero a finire per forza nel consumo con, tra l’altro, effetti ben concreti sul livello di redditivit­à delle imprese.

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