La nuova via della seta
Quello dei comunisti cinesi è probabilmente il partito marxista-leninista più di successo nella storia dell’umanità
Se infatti applicare la teoria alla pratica è un dettato che ha accomunato i comunisti di tutti i tempi, il Pcc sembra averlo portato a realizzazione piena: l’espansione del capitalismo di Stato di Pechino fuori dai confini della Cina ha molte delle caratteristiche dell’imperialismo teorizzato da Lenin. In particolare, la Belt and Road Initiative lanciata nel 2012 e oggi al centro dell’attenzione globale – la cosiddetta Nuova Via della Seta –, è nata e si è sviluppata come se fosse guidata da “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo”. La differenza è che, nel suo scritto del 1916, Lenin criticava l’espansione monopolistica e finanziaria a scopo di conquista; Xi Jinping la abbraccia. Il rivoluzionario russo teorizzava che il capitalismo raggiunge la sua fase di sviluppo massima e finale nella conquista di mercati e territori esteri in quanto le sue grandi imprese hanno una sovrapproduzione rispetto al mercato interno e, soprattutto, si è creato un eccesso di capitale che ha bisogno di nuovi sbocchi. Scriveva Lenin: «Ai numerosi “vecchi” motivi della politica coloniale, il capitale finanziario ha aggiunto la lotta per le fonti di materie prime, per l’esportazione di capitale, per le sfere d’influenza, cioè per sfere di accordi redditizi, concessioni, profitti monopolistici e così via, territori economici in generale».
Pechino ha stanziato mille miliardi di dollari
La Belt and Road Initiative è un piano di investimenti, per il quale Pechino ha stanziato mille miliardi di dollari, in una serie di Paesi, soprattutto in Asia ma non solo, per costruire infrastrutture. Si tratta di strade, ferrovie, ponti, centrali elettriche, porti, centri logistici. Vie di comunicazione di terra e di mare sulle quali fare viaggiare le merci e grazie alle quali raggiungere nuovi mercati o crearli dove non ci sono. Allo stesso tempo, investimenti che legano il Paese ricevente alla Cina, la quale in questo modo segue la logica del ragno al centro della tela. Come diceva Lenin, esportazione di capitali e sfere d’influenza. Economia e geopolitica.
Trasferire all’estero la sovraccapacità
In un articolo sul South China Morning Post di Hong Kong, il viceministro per gli Affari cinesi d’oltremare nel Consiglio di Stato (il governo centrale) He Yafei scrisse nel 2014 della sovraccapacità industriale del Paese e della necessità di «trasformare la sfida in un’opportunità trasferendo all’estero questa sovraccapacità». Si può naturalmente discutere il fatto che la Repubblica Popolare di Cina sia diventata, quarant’anni dopo l’apertura della sua economia al mondo per volontà di Deng Xiaoping, un Paese imperialista nel senso inteso da Lenin. Xi e la leadership di Pechino sostengono che la Nuova Via della Seta in realtà beneficerà i Paesi che accolgono i capitali cinesi. E al World Economic Forum di Davos del 2017 lo stesso presidente si è presentato come il massimo sostenitore della libertà dei commerci internazionali, opposto al protezionismo di Donald Trump. Il problema è che la strategia di Xi sta sempre più suscitando opposizioni.
C’è chi si oppone
In alcuni Paesi che hanno accettato gli investimenti della Belt and Road Initiative, i benefici sono risultati scarsi e i costi alti: è il caso del Pakistan. In altri l’iniziativa di Pechino ha addirittura costretto i governi locali a fare concessioni impreviste: è il caso dello Sri Lanka che ha dovuto dare in concessione per 99 anni il porto di Hambanthota ai cinesi in quanto non riusciva a sostenere i costi del debito contratto con Pechino. La Nuova Via della Seta inizia insomma a sollevare sospetti seri un po’ ovunque. Più in generale, la Cina viene poi accusata, in particolare da Stati Uniti ed Europa, di praticare una politica commerciale mercantilista, soprattutto di sovvenzionare le sue imprese di Stato per favorirne export e acquisizioni internazionali, di tenere il mercato interno chiuso alla concorrenza estera, di appropriarsi di tecnologia con metodi scorretti.
La Cina viene accusata, in particolare da Usa e Europa, di praticare una politica commerciale mercantilista, di sovvenzionare le sue imprese di Stato per favorirne export e acquisizioni internazionali, di tenere il mercato interno chiuso alla concorrenza estera, di appropriarsi di tecnologia con metodi scorretti
La questione della natura della Cina moderna – imperialista o meno – è tutto meno che scolastica. Le sue caratteristiche sono decisive nel decidere che atteggiamento deve tenere l’Occidente nei suoi confronti. Gli Stati Uniti di Trump sembrano non avere dubbi: si tratta di una potenza che cerca un’espansione imperiale. Lo scorso 4 ottobre, il vicepresidente americano Mike Pence ha tenuto un discorso che è stato interpretato da molti come la presa d’atto di una Guerra Fredda numero due: Washington contro Pechino. Confrontarsi con un Paese imperialista richiede una strategia di contenimento. Confrontarsi invece con un Paese che non ha mire egemoniche significa fargli spazio nell’economia globale. È la questione del futuro.