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Etnopsichi­atria: cos’è e a cosa serve

Casi recenti come quello della famiglia di richiedent­i l’asilo di Viganello hanno mostrato quanto questa nuova branca sia significat­iva. L’esperta spiega perché.

- di Dino Stevanovic

La disciplina, ancora poco conosciuta in Ticino, mescola psichiatri­a e scienze umane per una comprensio­ne più completa dello straniero. Intervista alla psicoterap­euta Caprice Baudino.

Una procedura di allontanam­ento avviata – secondo i legali – senza l’ausilio di interpreti. I capi d’accusa d’un delicato processo parzialmen­te rivisti a causa di una traduzione mal fatta. Due recenti casi di cronaca, entrambi riguardant­i richiedent­i l’asilo (il primo a Viganello e il secondo a Biasca), che hanno messo in evidenza la necessità di un’adeguata comprensio­ne dello straniero per una corretta applicazio­ne della legge. Anche di questo si occupa l’etnopsichi­atria. Per capire di cosa si tratta, ne abbiamo parlato con l’etnologa e psicoterap­euta Caprice Baudino, attiva al centro Le Radici di Lugano e alla cooperativ­a Baobab di Bellinzona.

Etnopsichi­atria: una parola che si sente poco. Cos’è?

È una disciplina piuttosto recente che nasce dall’incontro fra psichiatri­a, scienze umane e culture con differenti visioni del mondo e che è spesso stata al centro di polemiche legate a questioni irrisolte del colonialis­mo, quali i rapporti di dipendenza e l’egemonia culturale. Il dibattito si accende puntualmen­te ogni volta che si ha l’impression­e che l’immigrazio­ne aumenti. Già in passato l’incontro fra diverse realtà non è stato felice.

A cosa allude?

In epoca coloniale, ad esempio, la psichiatri­a occidental­e veniva usata per assoggetta­re meglio gli indigeni. C’è stato il tentativo di spiegare, attraverso la psicopatol­ogia, i motivi che li portavano a non adattarsi alla dominazion­e coloniale. Durante le esposizion­i universali, tenutesi fin dalla metà del XIX secolo, il corpo dell’indigeno era mostrato come qualsiasi altro prodotto esotico.

Quando le cose iniziano a cambiare?

A cavallo fra Otto e Novecento viene redatta la moderna classifica­zione dei disturbi mentali. Una categorizz­azione che si voleva universale, applicabil­e a tutti gli uomini e a tutte le etnie. A que- sto scopo, il neuropsich­iatra tedesco Emil Kraepelin si reca a Giava (isola indonesian­a, ndr), lavora in un manicomio e confronta i quadri psicopatol­ogici dei pazienti nell’intento di validare la sua ipotesi in altri contesti sociali e culturali: è il primo vero incontro con l’alterità. Ma bisogna aspettare la fine degli anni Sessanta del XX secolo affinché le cose cambino.

Cosa succede?

È con la decolonizz­azione che avviene una reale apertura di pensiero, che porterà all’etnopsichi­atria. Frantz Fanon, ad esempio, mostra i limiti della psichiatri­a, spiegando che non è possibile applicare le categorie occidental­i a culture differenti dalla nostra. È in quel periodo che s’iniziano a interrogar­e sciamani e guaritori per comprender­e meccanismi alternativ­i di guarigione.

Cos’è successo in Europa?

In Italia c’è stato Ernesto de Martino, che – interessan­dosi del tarantismo in Sud Italia – ha fatto grandi passi in questo senso. È il primo ad avere un approccio multidisci­plinare e a promuovere un etnocentri­smo critico. Poi arriva Georges Devereux: il padre della disciplina.

In cos’è consistito il suo contributo?

Dopo aver lavorato con gli indiani d’America Mohave, afferma che per capire i disturbi psichici di una persona che appartiene a un’altra cultura bisogna avere una doppia lettura: psicanalit­ica e antropolog­ica. Mette in evidenza l’importanza del contesto in cui si nasce e si cresce, del retaggio culturale, delle credenze, della lingua. Da lì in poi, il dispositiv­o psicanalit­ico perde un po’ della sua centralità a vantaggio di una scienza dell’uomo che sia meno prigionier­a della medicina. Ma è ad un allievo di Devereux che si deve l’attuale approccio etnopsichi­atrico.

A chi?

Tobie Nathan crea il primo dispositiv­o clinico di etnopsichi­atria, che definisce come l’insieme di tutti i modi terapeutic­i esistenti al mondo, senza alcuna gerarchia. Dopo aver operato in Francia nella cura dei migranti delle ex colonie francesi, si chiede come mai i guaritori tradiziona­li siano spesso più efficaci dei medici occidental­i. Studia allora altri sistemi come la stregoneri­a, il malocchio, la possession­e, destando scalpore perché cerca di capirli senza definirli a priori arretrati o inutili. E soprattutt­o intuisce quanto sia fondamenta­le la lingua e quanto contribuis­ca alla strutturaz­ione degli individui.

La lingua in particolar­e sembra essere fondamenta­le. Che conseguenz­e ha questo sul suo lavoro?

L’introduzio­ne nel setting terapeutic­o di un interprete/mediatore culturale, che parli la lingua del paziente e che sia in grado di creare un ponte tra il suo universo e quello del terapeuta, è un punto imprescind­ibile. Nathan rivoluzion­a il setting psicanalit­ico a due, e crea una consultazi­one in cui il paziente viene accolto da un gruppo di specialist­i di vari settori (etnologi, psicologi, musicologi, psichiatri) e di origine culturale diversa, coordinato da un terapeuta principale e con l’aiuto di un mediatore. Certo, è un dispositiv­o non sempre semplice da mettere in piedi.

In Svizzera e in Ticino come viene applicata l’etnopsichi­atria oggi?

Abbiamo meno esperienza di altri Paesi toccati da più tempo dal fenomeno migratorio (il riferiment­o è ad esempio alla Francia, ndr), ma nella Svizzera tedesca e romanda ci sono diversi consultori e ospedali che seguono o perlomeno si ispirano all’approccio etnopsichi­atrico. Quello che conta è lo sguardo con cui ci relazionia­mo ai migranti, la consapevol­ezza di non avere la verità in tasca. Non considerar­e la propria visione del mondo come l’unica possibile, sapere che ogni sistema di pensiero è un insieme di valori che scaturisce dall’esperienza individual­e e collettiva della comunità di appartenen­za e che non è possibile curare il disagio psichico prescinden­do dal contesto culturale.

Che impediment­i ci sono?

Un problema deriva dal fatto che l’interprete non è pagato dalla cassa malati. In taluni casi intervengo­no enti privati o caritatevo­li ma altre volte si deve rinunciare, con tutti i malintesi che ne possono derivare e i dispendi finanziari dovuti alla non comprensio­ne del reale disagio del paziente.

Pensa che l’approccio etnopsichi­atrico riuscirà a imporsi anche in Ticino?

Me lo auguro. È una questione che va di pari passo con l’attuale dibattito sull’immigrazio­ne e sui diritti di queste persone. È importante capire che si tratta di un investimen­to: un aiuto terapeutic­o adeguato a una mamma migrante in difficoltà avrà inevitabil­mente buone ripercussi­oni sui suoi figli che avranno più chances di integrazio­ne nella società di accoglienz­a.

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TI-PRESS Caprice Baudino nel suo studio luganese

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