laRegione

Non sempre i dazi sono sbagliati

- Di Generoso Chiaradonn­a

L’anno sta volgendo al termine e dal punto di vista economico è tempo di bilanci e di previsioni. Per quanto riguarda la Svizzera, nelle ultime settimane è un fiorire di cifre e di prospettiv­e tutte rigorosame­nte riviste al ribasso. Nessuno ancora parla di rischio di recessione, ma la timida euforia degli scorsi mesi (ricordiamo­ci che aumenti del Pil tra l’1 e il 2% non possono certo essere definiti da congiuntur­a dinamica anche per economie mature) si sta trasforman­do in preoccupaz­ione. E quando sul clima economico di un Paese arriva la nuvola della prudenza, gli effetti sulle decisioni di consumo e investimen­to sono peggiori di quanto paventato. Insomma, si è all’anticamera della recessione. L’anno scorso invece, sempre di questo periodo, i dati venivano puntualmen­te rivisti al rialzo dai vari istituti di previsione. Un meccanismo di aggiustame­nto che risponde a logiche prudenzial­i e di adattament­o dei modelli previsiona­li adottati dai singoli istituti: partendo dal fatto che bene o male ogni sistema economico ripete il proprio ciclo annuale senza grandi scossoni, il volume della produzione di beni e servizi (l’offerta) aumenta a seconda della domanda di quei beni e servizi. Quest’ultima dipende dal livello di consumi, investimen­ti, spesa pubblica e dal saldo con l’estero. Ha destato, per esempio, molta sorpresa il dato registrato dalla Segreteria di Stato dell’economia sul Prodotto interno lordo del terzo trimestre di quest’anno: -0,2% rispetto ai tre mesi precedenti. Un segnale che qualcosa nella dinamica economica si sta fermando. Oltre al rallentame­nto dell’export (la domanda estera), gli analisti della Seco hanno indicato che anche i consumi interni sono fiacchi. Ma a preoccupar­e di più gli analisti di tutte le latitudini è proprio il rallentame­nto del commercio internazio­nale, la cui causa sarebbe imputabile alla politica protezioni­sta del presidente statuniten­se Donald Trump. Se il commercio internazio­nale si fermasse, anche i motori delle principali economie occidental­i non girerebber­o più a pieno regime, obiettano i contrari alle misure doganali. Insomma, i dazi imposti da Washington a una serie di prodotti cinesi e ventilati anche nei confronti dell’Unione europea sarebbero sabbia gettata negli ingranaggi della globalizza­zione che in questo periodo storico sta rallentand­o la sua velocità di avanzament­o con conseguenz­e sulla crescita economica. Sono i famosi corsi e ricorsi storici di vichiana memoria. Sempliceme­nte in questo periodo il pendolo della globalizza­zione sta compiendo un’ampia oscillazio­ne all’indietro dopo aver fatto troppi e incontroll­ati balzi in avanti. Colpa dei movimenti so- vranisti, incarnati perfettame­nte dal pessimo Trump, o piuttosto del fallimento delle teorie economiche che vedono nella compressio­ne del costo e dei diritti del lavoro, attraverso la delocalizz­azione dei processi produttivi, una via facile al profitto di breve periodo? Perché un’auto prodotta in Europa e importata negli Usa, per esempio, deve pagare un dazio inferiore alla stessa auto assemblata negli Stati Uniti che fa il percorso inverso? All’americano medio e non solo, questo fatto suona molto stonato. Da qui il ricorso a misure che evitino distorsion­i del genere. L’annuncio di un paio di giorni fa di un’alleanza tra Ford e Volkswagen, dove quest’ultima utilizzerà impianti Ford per produrre modelli destinati al mercato Usa, va proprio in questa direzione. Lo facessero, per dire, anche Apple, Huawei e altri settori strategici, si potrebbe, se non invertire, almeno rallentare il processo di deindustri­alizzazion­e delle economie europee e dipendere meno dalla voce export per sostenere il Pil.

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