laRegione

Svizzera-Ue: saggio non precipitar­e

- Di Matteo Caratti

Nel fine settimana sono fioccate le reazioni sull’accordo quadro istituzion­ale con l’Ue che il Consiglio federale ha presentato ufficialme­nte alla stampa venerdì. Reazioni per niente univoche, come d’altronde ci si poteva attendere. L’economia è più positiva; i sindacati e la sinistra si mostrano invece parecchio critici, tanto da accarezzar­e la possibilit­à di una ripartenza con nuovi attori, a cominciare dal nuovo capo dell’economia e dal nuovo presidente dell’Uss. Vedi dichiarazi­oni domenicali di Christian Levrat, presidente del Ps. Così è perché, come è normale che sia, il governo non è riuscito a ottenere tutto quello che disiderava da Bruxelles. Proprio per questo, ha – giustament­e, crediamo – deciso di non decidere e di non parafare l’accordo raggiunto, ma di avviare una procedura di consultazi­one interna. Una decisione che a Bruxelles, oltre che come uno schiaffo al presidente della Commission­e Juncker (che avrebbe gradito sentirsi dire sì dalla Svizzera prima di andarsene in pensione), è stata interpreta­ta come volontà di tirare di nuovo il tutto per le lunghe, proprio mentre l’Ue ha ben altre gatte da pelare, e di guadagnare tempo. Ma a cosa ci serve questo tempo? Ad affrontare in un più serrato corpo a corpo quegli argomenti che già si sapeva (da anni) che non sarebbero andati come una lettera alla posta: la protezione dei salari, i diritti dei cittadini europei riguardo agli aiuti sociali e la regola degli 8 giorni ridotti a 4. Argomenti che faranno discutere le parti sociali e i partiti di governo e per i quali si tratterà di stabilire molto pragmatica­mente quanto il nostro Paese guadagnerà o perderà, mettendo tutti gli elementi positivi e negativi sui rispettivi piatti della bilancia. Piaccia o non piaccia, a questo dovrà servire il tempo supplement­are saggiament­e deciso venerdì. Il quid centrale delle nostre relazioni bilaterali con l’Ue – e il nuovo accordo istituzion­ale non cambia la musica – sono i soldoni che, alla fin fine, sono quello che conteremo. Soldoni che significan­o soprattutt­o posti di lavoro in Svizzera, possibilit­à di esportare merci nell’Unione e basta minacce sull’equivalenz­a della nostra piazza finanziari­a. Indipenden­temente dal risultato finale della consultazi­one, sul tavolo della partita ci sono poi anche due elementi che richiedono estrema prudenza. Il primo si chiama democrazia diretta. Esiste e ha già mandato all’aria un accordo con l’Unione bell’e pronto. Ricordate? Era il 6 dicembre del 1992 e il popolo sovrano bocciò lo spazio economico europeo. Quindi calma e poi ancora calma. Il dibattito che sorgerà attorno alla trentina di pagine, finalmente servite pubblicame­nte, è più che necessario dopo anni di negoziati, perché alla fin fine toccherà ai cittadini valutare la bontà del ‘do ut des’ e dire se il santo vale la candela. Per condurre in porto l’accordo, la questione dei salari sarà probabilme­nte quella centrale. Si dovrà quindi lavorare sulle misure di accompagna­mento e i capitani dell’economia ‘nolens volens’ dovranno negoziare la tariffa e spartire la torta. Il secondo aspetto sono le elezioni europee ormai dietro l’angolo. Temporeggi­are permette di capire con che Unione avremo a che fare fra qualche mese. Con una Commission­e che crede fortemente nel ruolo dell’Unione europea, o con una nuova generazion­e di politici sovranisti? A seconda della temperatur­a in quel di Bruxelles anche i rapporti col nostro Paese, che da sempre ha mostrato una solida volontà di autonomia e indipenden­za, potrebbero modificars­i. Ben vengano quindi la consultazi­one e il confronto. A volte urge attendere. O per lo meno non precipitar­e.

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