Tracce del (in)visibile
A Villa dei Cedri fino al 3 febbraio visitabile l’antologica dedicata a Fernando Bordoni
L’esposizione ripercorre coerentemente il cammino dell’artista, dalla Pop Art fino alla creazione di Alfabeti e griglie su cui sono tracciati grafie, ritmi e segnali, passando per lo snodo cruciale delle impronte di pneumatici
Se, nel contesto ticinese, la pittura di Fernando Bordoni (1937) si profila per un suo tratto molto personale, è perché ha una storia sua particolare alle spalle. Ricordo, trent’anni fa, eravamo insieme proprio a Villa dei Cedri e guardavamo un quadro di Calame con un paesaggio di montagna tempestoso, nuvole nere, alberi e cespugli battuti dai venti, tronchi divelti e un minaccioso ruscello in primo piano, ingrossato dalle acque. “Bella pittura!” – gli dissi. Tacque un poco… “Sì ma noi non possiamo più dipingere così!”. Son quelle cose che ti si fissano in mente e non sai perché. Forse c’era anche un filo di rammarico nelle sue parole, ma mi era ben chiaro che dietro quel “non possiamo” c’era la consapevolezza di un secolo e mezzo di storia contemporanea con cui bisognava pur fare i conti, e che nel frattempo l’arte aveva girato più di una pagina. Lui i suoi conti, a quell’epoca, li aveva già fatti da un pezzo. C’era già stato il periodo milanese, quando si era formato a Brera nell’ambito dell’informale lombardo; seguito dalla scoperta, a Londra, nei primi anni Sessanta, della Pop Art: la pubblicità, la moda, le insegne luminose e la musica pop, l’impersonalità dell’oggetto e la dissonanza del colore si proponevano come forme e temi fondanti di un’arte che voleva rimescolare le carte e specchiare una società di massa. Anche Bordoni ne rimane affascinato: spegne i toni della partecipazione emotiva, assume e declina temi e forme dell’immaginario pop.
‘Sentire che musica suona una pittura che si muove tra costrizione e libertà’
Poi però va anche oltre: nell’intento di spersonalizzare la pittura, perché si faccia specchio fino in fondo dell’invadenza dell’oggetto, prende come riferimento un copertone d’auto e lascia che sia la sua impronta a dettare la struttura autoreferenziale e neutra del dipinto. Siamo a uno snodo fondamentale del suo percorso. Perché procedendo sul filo di quelle impronte derivanti da una struttura di base seriale e preordinata, poco alla volta egli si riappropria di una certa autonomia: ne omette qualche parte, altre ne integra o varia, altre ancora colora giocando sui contrappunti di pieni e vuoti, di colori caldi o freddi, di partiture alte o basse. Arriverà così all’invenzione degli Alfabeti in cui il segno si fa più vibrato e lirico, crea reticoli, muove le composizioni, inventa tratteggi e percorsi policromi. Da questo momento il linguaggio pittorico di Bordoni continuerà in maniera coerente a cercare le varianti di una pittura costretta a venir fuori dal perimetro di una gabbia che, in sostanza, la chiude e delimita; in altre parole, a sentire che musica suona una pittura che si muove tra costrizione e libertà. Salendo con gli anni, pur continuando ad operare all’interno di una suddivisione geometrica del fondo, la sua pittura va in cerca di nuovi approdi, si fa sempre più libera, evocativa e poetica, giocando con i colori dell’iride, come una strana scrittura in cui si riassumono e si ibridano alfabeti reali e immaginari, rimandi a codici arcaici e segni della moderna tecnologia avanzata, forme simboliche accostate a misteriosi grafemi, fondi dalle velature ombrose e dai toni notturni accanto a quelli più luminosi e splendenti della solarità diurna. Perché ad un certo punto, anche all’interno di quella griglia apparentemente così fredda e astratta, ritornano comunque rimandi ai colori e ai sapori della vita, si intrecciano percorsi, grafie, tracce, ritmi, allusioni, segnali che diventano specchio in cui ci si guarda o proietta. L’antologica di Fernando Bordoni, molto ben allestita a Villa dei Cedri (e accompagnata da un puntuale e conciso testo di commento), dà ben conto di questo suo coerente cammino che scandisce quasi sei decenni di vita, ne evidenzia le diverse fasi sottolineando i momenti in cui egli si avventura verso nuovi territori sempre rimanendo fedele alla trama di fondo, alla struttura di base del reticolo. Ne esce l’immagine di una pittura che non rappresenta, non racconta: coerente con se stessa, vive di suggestioni minime, del non detto, lascia che quanto esce, emerga dalla relazione di poche cose. A questo punto anche il rigore del linguaggio geometrico, dell’ordine precostituito, della sottostante griglia compositiva, viene umanizzato da una scrittura che sfonda verso entità alluse, verso la evocazione.