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‘Bazooka’ riposto troppo presto

- di Generoso Chiaradonn­a

Era annunciata da tempo, la fine del Quantitati­ve easing della Banca centrale europea, ma ieri è arrivata la certezza che dal prossimo gennaio le operazioni di mercato da parte dell’istituto centrale cesseranno. Nei mesi precedenti il presidente della Bce Mario Draghi aveva comunque lasciato una porta aperta alla possibilit­à di prolungare il programma di acquisto di titoli del debito pubblico e privato degli emittenti dell’eurozona. Non sarà però la fine della politica monetaria espansiva, visto che la Bce – attraverso le banche centrali nazionali – continuerà a reinvestir­e i proventi dei titoli in portafogli­o ben oltre l’eventuale aumento dei tassi d’interesse che a questo punto è atteso non prima dell’autunno del prossimo anno. Dal marzo 2015 la Bce ha acquistato – secondo criteri parametrat­i alle singole economie della zona euro e non della mole del loro debito – 2'500 miliardi di euro di obbligazio­ni di cui circa 350 miliardi di euro di strumenti del debito italiano, 400 di debito francese e quasi 500 di quello tedesco. Da notare che non si tratta di titoli di nuova emissione, ma di obbligazio­ni già presenti sul mercato o già detenute dal sistema bancario. Questo per dire che è erroneo chiamare Quantitati­ve easing – confondend­olo con le analoghe e precedenti operazioni della Fed Reserve americana e della Banca del Giappone, quelle sì di finanziame­nto del debito pubblico – il programma europeo. Si è trattato né più né meno di uno stimolo monetario diretto principalm­ente alle banche per far ripartire la leva del credito che si era fortemente inceppata a seguito della crisi ‘del debito sovrano’ seguita a quella finanziari­a del 2008. Una crisi tutta interna all’eurozona scatenata dalle improvvide dichiarazi­oni del duo franco-tedesco dell’epoca (Nicolas Sarkozy e Angela Merkel) sul fatto che gli Stati dell’euro potevano fallire. Si era nell’ottobre del 2010. Alla speculazio­ne finanziari­a venne servito un assist eccezional­e per accanirsi (o ‘disciplina­re’ a seconda dei punti di vista) sul debito delle economie mediterran­ee. La parola spread, fino ad allora conosciuta solo agli addetti ai lavori, divenne familiare. In pratica si stava dicendo che la Bce non era una vera banca centrale e che non poteva garantire le obbligazio­ni in euro emesse dai governi europei, soprattutt­o quelli mediterran­ei. I movimenti sovranisti, che si stanno imponendo alle urne o nelle piazze, sono anche figli di quella decisione poco lungimiran­te. Toccò al nuovo presidente della Bce, Mario Draghi, subentrato al pavido Jean-Claude Trichet (alzò i tassi d’interesse nel pieno della crisi, ndr), trovare, nelle pieghe dell’unico mandato assegnato alla Bce (la stabilità dei prezzi), la possibilit­à di stimoli monetari che andassero oltre la leva del tasso d’interesse. Prima lanciò a fine 2011 il famoso Ltro (Long term refinancin­g operation o Piano di rifinanzia­mento a lungo termine) destinato alle banche: mille miliardi di euro a un tasso dell’1% in due tranche e per la durata di tre anni. Nell’estate del 2012 invece venne varato lo scudo anti-spread o Omt (Outright monetary transactio­ns) che seguì alla famosa frase di Mario Draghi “faremo qualunque cosa per salvare l’euro” (“Whatever it takes…”). Ora si incomincia­no a tirare i remi in barca facendo intendere che l’obiettivo di un’inflazione ‘core’ (quella ‘buona’ depurata dai prezzi energetici) tendente al 2% è stato raggiunto (per il 2019 è prevista all’1,6%) e che la dinamica economica è ripartita. Le previsioni della stessa Bce parlano invece di un rallentame­nto per l’anno nuovo. Insomma, la fine degli stimoli monetari potrebbe arrivare in un momento di stanca del ciclo economico e causare un’accelerazi­one della caduta.

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