Pace negata ai siriani
Alla maggior parte del milione di bambini siriani nati in esilio la prospettiva di poter tornare nel Paese dei propri genitori è negata. I combattimenti sono calati d’intensità, ma non le sofferenze dei civili.
Un milione di siriani è nato fuori dal proprio Paese, dall’inizio della gurra civile, nel 2011, a oggi. Oltre mezzo milione (compresi però i combattenti stranieri) vi è morto nello stesso periodo. La vittoria di Bashar al Assad sui “terroristi” (tali definiva tutti coloro che si opponevano al suo regime) non è ancora definitiva, né i numeri valgono da soli quale sigillo della tragedia siriana, ma – si aggiungano i quasi sette milioni di profughi riparati all’estero e gli altrettanti “sfollati interni” – si può avere un’idea pur sommaria di quanto è costato il conflitto, in termini umani. Il conteggio dei morti è stato reso noto giorni fa dall’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria (Ondus), una Ong basata a Londra, fondata da un dissidente siriano, che si vuole indipendente e con affidabili informatori sul terreno. Sulle 560mila conteggiate, l’Ondus ha potuto documentare con certezza la morte di 367’965 persone, un terzo circa delle quali civili. Tra i combattenti, 65’048 erano forze dell’esercito regolare siriano e 50’296 miliziani lealisti. Tra le formazioni radicali, 65’108 morti militavano nelle formazioni locali di al Qaida e dell’Isis. Nei ranghi dei gruppi armati delle opposizioni, 63’561 uccisi, e in questa cifra sono inclusi anche i miliziani curdo-siriani. Tra le vittime, ci sono anche 1’675 miliziani Hezbollah, il movimento sciita libanese alleato di Damasco e dell’Iran, che si è investito direttamente nel conflitto. E sul conto della “vittoria” di Assad, vanno conteggiati anche i 104mila morti sotto tortura nelle carceri governative. Il dato del milione di bambini siriani nati in un campo profughi o in strutture d’accoglienza più o meno provvisorie è invece dell’Unhcr. Bambini che hanno già dovuto imparare a vivere nella precarietà più assoluta, vivendo accanto a minori appena più grandi di loro e già oggetto di sfruttamento, sul lavoro o sessuale. Gli uni e gli altri dati sono la materia viva, o il sangue che ne resta, di uno scenario che in termini geostrategici tutti hanno una gran voglia, o necessità, di considerare assestato o in via d’esserlo definitivamente. E certo non lo è.
La guerra non è finita
Benché le agenzie governative e alcune organizzazioni internazionali abbiano cominciato a documentare la cessazione “definitiva” dei combattimenti, il “ritorno” degli sfollati alle proprie abitazioni, i primi segnali di “ricostruzione”, parlare di “post-war” in Siria è azzardato, se in buona fede, o cinico. Una specie di ottimismo che tradisce piuttosto il desiderio di uscire da un incubo, come ha scritto l’altroieri Sara Kayyali, ricercatrice di Human Rights Watch. Se è vero che le ostilità sono andate scemando (ma restano cruciali focolai di battaglia come Idlib) ben poco è mutato “nelle cause profonde del conflitto” in specie nelle “massicce e sistematiche violazioni dei diritti umani”. Cioè uno dei marchi di fabbrica del regime. Nell’ultimo anno, ha osservato Sara Kayyali, le organizzazioni per i diritti umani “hanno documentato come l’alleanza militare russo-siriana ha ripreso il controllo di centri ancora in mano alle forze antigovernative, ricorrendo ad attacchi che comprendevano bombardamenti aerei indiscriminati e l’utilizzo di armi proibite”. Solo a Idlib, in seguito a una forte pressione diplomatica, pare che possa essere risparmiata tale sorte. Mentre Raqqa, a lungo quartier generale dell’Isis in Siria, non ha ancora potuto riprendersi dall’impatto della battaglia condotta dall’alleanza a guida statunitense per riconquistarla. Ma anche lontano dai campi di battaglia (per quanto lo si possa essere in un guerra civile) la sicurezza degli abitanti è tutto fuorché garantita. Innanzitutto rispetto ai metodi delle “forze di sicurezza” e del governo stesso. Agli sfollati cacciati dalle proprie abitazioni è difficile credere agli annunci del “ritorno” ormai cominciato. La più parte delle case è andata distrutta e una legge recente autorizza il governo ad assumerne la proprietà e vietarne l’accesso a chi l’aveva abbandonata. E del milione di bambini siriani nati in esilio, ben pochi arriveranno a vedere il Paese che fu dei propri genitori.