laRegione

Questo Israele senza Amos Oz

- Di Erminio Ferrari

Bisognereb­be lasciare in pace i morti, è vero, ma certe morti non lasciano in pace. Amos Oz era stato uno dei fondatori di Peace Now, ma avrebbe ripreso le armi, ci aveva detto tanti anni fa, e sarebbe morto per difendere il suo Paese, “la sola utopia realizzata del ventesimo secolo”. Solo che quell’Israele di cui lui aveva più anni, come amava ricordare sorridendo ma seriamente, è parso scordarsi di che cosa è stato quel ventesimo secolo dal cui ventre è nato, “contro ogni principio di non contraddiz­ione”. Peggio: quello stesso Israele che ha confuso il diritto con il sopruso e la forza con l’arroganza sembra provare fastidio, fino al rifiuto, per quei suoi figlipadri che ostinatame­nte glielo ricordano, fossero pure scrittori tra i più grandi della nostra epoca. Di Amos Oz non si può dire che amava Israele, perché sarebbe una banalità. Oz, piuttosto, era Israele, come ognuno di noi è sé stesso. E dunque poteva abitarvi scordandos­i “per una settimana di essere ebreo”. Anche questo ci aveva detto allora. Ma forse ieri si sarebbe espresso diversamen­te. Per vivere nell’Israele di oggi – di Benjamin Netanyahu, dell’ultradestr­a al governo, del ruolo soverchian­te dei religiosi, del ricatto dei coloni, del fanatismo evangelico d’importazio­ne – è semmai necessario ricordare di essere ebrei. Ricordarlo agli altri, per affermare la propria superiorit­à, imporla. E dunque si può ben capire perché la destra avesse motivi per detestarlo. Quella destra non solo priva del sense of humor, di cui lui invece non volle disfarsi mai (preferendo i “finali alla Checov” a quelli tragici delle epiche nazionalis­te); ma che di sicuro non poteva accusarlo di discettare di pace, del bene e del male, al riparo di una torre d’avorio, lui che aveva combattuto nella Guerra dei Sei Giorni, nel 1967, e in quella del Kippur, nel 1973. Che non amava da anima bella i palestines­i, ma ne riconoscev­a la tragedia e ne sosteneva i diritti. Così, la definizion­e di “idealista” brandita talvolta nei suoi confronti come insulto era quanto di più insensato si potesse usare. Al contrario, se qualcosa distinguev­a l’Amos Oz “politico”, era un pragmatism­o lucido e ostinato. Anche quando Donald Trump annunciò il trasferime­nto dell’ambasciata statuniten­se a Gerusalemm­e, Oz si augurò pubblicame­nte che tutte le capitali del mondo lo facessero, ma aprendone un’altra a Gerusalemm­e Est, riconosciu­ta capitale palestines­e. Forse perché era uno scrittore. E che scrittore. Il suo romanzo ‘Lo stesso mare’ (del 1999, tradotto in italiano nel 2003) si concludeva con parole che oggi possiamo riconoscer­e profetiche: “Ora levati, va’ in cerca, lieve e silenzioso alzati, va’ cerca quel ch’è perduto”. Consapevol­e dello stigma della tragedia che la Storia gli aveva imposto, ma determinat­o a esigere da critici e lettori un giudizio stilistico per la propria opera, rifuggendo dalla scorciatoi­a del “messaggio”. È che nei grandi, in quelli davvero grandi, la forma e il messaggio discendono una dall’altro, e viceversa. Ed è quella l’arte.

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