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Kapanen, basta il nome

Prima Hannu, poi Sami e Kasperi: storia di una delle dinastie dell’hockey finlandese e di una rete sull’asse padre-figlio

- Di Kurt Wechsler

Davos – Tale padre, tale figlio. Stavolta è proprio il caso di dirlo. Infatti non capita certo di frequente nel mondo dello sport moderno che un genitore possa non soltanto dire di aver lavorato in squadra col suo bambino, ma addirittur­a di aver giocato in linea assieme. «Me lo ricordo come se fosse ieri» racconta Sami Kapanen, oggi 45enne tecnico del KalPa di Kuopio che quattro anni fa ebbe l’onore di diventare il primo giocatore della storia dell’hockey finlandese a confeziona­re un gol assieme al figlio, l’allora diciassett­enne Kasperi Kapanen. E che nel frattempo ha già totalizzat­o più di cento partite in National Hockey League, firmato un contratto per quei Toronto Maple Leafs che l’avevano draftato proprio nel 2014. Nell’anno in cui suo padre Sami decise di appendere definitiva­mente i pattini al chiodo. «Ero così fiero di aver potuto giocare a fianco di Kasperi» ricorda il tecnico nato a Vantaa, che in carriera ha giocato quasi mille partite nel campionato più bello del mondo. E che torna alla Spengler da allenatore, dopo averla già vissuta da giocatore nel 1994, con la maglia dell’Ifk di Helsinki. Di cui suo padre Hannu era allenatore, mentre suo fratello Kimmo faceva il portiere. «Da noi, in Finlandia, c’è un nutrito elenco di famiglie di hockey dai nomi importanti, e siamo fieri di farne parte – spiega il giovane allenatore del KalPa –. E tra i Kapanen ci sono campioni di tre generazion­i, siccome mio padre vinse il titolo ai Mondiali juniores nel 1978, mentre io ci riuscii a quelli assoluti del 1995 e mio figlio Kasperi si mise al collo la medaglia d’oro a quelli di tre anni fa a Helsinki».

‘Stoccolma mi cambiò la vita’

A proposito di Stoccolma 1995: fu quello il punto più alto della tua carriera? «Sì, possiamo dire che quel successo rappresent­ò una svolta per la mia carriera – spiega –. Infatti, se vinci qualcosa è più facile diventare popolare in Nordameric­a. Io venni draftato lo stesso anno, e firmai ad Hartford la stagione prima che la franchigia si trasferiss­e in Nord Caroli-

na, a Raleigh. E tutto sommato direi di aver avuto una buona carriera oltre oceano (ben 918 partite, con le maglie di Whalers e Hurricanes, appunto, e Philadelph­ia Flyers, ndr), siccome ho pur sempre giocato tredici anni in National Hockey League. E se è capitato, credo che sia tutto merito della Nazionale: senza i Mondiali del 1995 a Stoccolma, non so se avrei potuto avere una carriera così». Con quella maglia addosso, però, hai avuto anche momenti meno belli da ricordare, e cioè l’amara sconfitta in finale ai Mondiali in Italia del 1994 ad opera del Canada, oppure lo smacco nella duplice

finale con la Svezia ai Campionati del mondo in Svizzera, quattro anni dopo... «Infatti, dico sempre ai miei figli che sono l’unico giocatore al mondo ad aver perso tre finali ai Mondiali in tre modi diversi, cioè entro il sessantesi­mo, ai supplement­ari e ai rigori – sorride –. Nonostante l’amarezza per quella doppia, amara finale di Zurigo 1998, della Svizzera ho sempre un buon ricordo». Non trovi curioso il fatto di essere su una delle due panchine alla Spengler ventiquatt­ro anni dopo tuo padre? «Diciamo che sempliceme­nte la cosa mi fa sentire vecchio... – ride –. Infatti, ciò mi fa capire

quanto veloce passino gli anni. A quei tempi, nel 1994, ero al mio primo anno da profession­ista, e volevo godermi ogni momento, mentre adesso cerco di aiutare i nostri giovani a crescere, affinché possano costruirsi una carriera. E in questa squadra ci sono molti ragazzi di grande talento: mi fa piacere poter dare loro una mano». Che tipo di squadra è, questo KalPa? «È una squadra forte sul piano tecnico, che ama il gioco offensivo e sa pattinare bene. Infatti nel gruppo non abbiamo giocatori prestanti, e un po’ paghiamo sul piano fisico: la base, quindi, è il pattinaggi­o, per un gruppo a

cui piace giocare il disco e in cui c’è un buon mix tra i giovani finlandesi e gli elementi di scuola canadese o americana che mettono al servizio degli altri la loro esperienza». La vostra debolezza, invece? «Debolezze? Non ne abbiamo – ride –. La verità è che la nostra è una rosa giovane, e non sai mai se dopo aver giocato venti minuti intensi sarà in grado di reggere lo stesso ritmo per i successivi venti. Ma siccome i giocatori sono preparati per sopportare certi carichi, il problema è mentale, ed è legato all’inesperien­za. È su questo che lavoriamo, e le cose andranno sempre meglio»

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KEYSTONE Il 45enne coach del KalPa e una lunga tradizione. ‘Da noi ci sono molte famiglie così, e siamo fieri di fare la nostra parte’

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