Una fiducia a orologeria
Theresa May supera il voto sulla mozione presentata da Jeremy Corbyn, ma lo scenario generato dalla bocciatura dell’accordo con l’Unione europea non è mutato. I tempi per proporre all’Ue un piano alternativo sono strettissimi, e Bruxelles non intende rin
Londra – Theresa May è salva, ma ancora per poco. La Camera dei Comuni ha respinto ieri la mozione di sfiducia presentata dal leader laburista Jeremy Corbyn, ma in definitiva non è questo l’importante: dopo il no dei Comuni all’accordo raggiunto con l’Unione europea per una Brexit concordata, la fine della prima ministra britannica è comunque segnata. Ciò che piuttosto conta, mentre il tempo stringe, è che cosa prenderà il posto dell’intesa affossata. E nessuno ora lo può dire: non i più accesi sostenitori dell’uscita dall’Unione, né gli ostinati europeisti, fautori di un nuovo referendum. Due opposti, dei quali, probabilmente, a uscire vittorioso sarà il fronte del “leave”. Con o senza accordo. Dunque i 325 no alla mozione di Corbyn, appena diciannove più dei sì, hanno salvato il posto di May, ma solo per prolungarne l’agonia. La prima ministra deve infatti affrontare una prova che richiederebbe un miracolo per essere superata. In casa l’aspetta un confronto con opposizioni ben poco disposte – quelle riconosciute come tali, figuriamoci quelle interne al partito conservatore, il suo – e che l’aspettano all’inizio della prossima settimana con un piano alternativo a quello bocciato. Un’impresa di per sé quasi impossibile. Ammesso infatti che May riesca a contraffare un testo da presentare come nuovo ai Comuni, difficilmente riuscirebbe a convincere i negoziatori europei a prenderlo per buono al posto di quello sortito da due anni di trattativa. A dieci settimane dal 29 marzo, data indicata per l’uscita del Regno dall’Unione, immaginare che vi sia il tempo per ricomporre due anni di negoziati mandati in frantumi in una sera è quantomeno ingenuo. May, dopo il voto che l’ha mantenuta a capo del governo, si è detta pronta a incontrare tutti i leader dell’opposizione per cercare di trovare una linea comune. Poco incoraggianti le reazioni. Il capogruppo degli indipendentisti scozzesi dell’Snp, Ian Blackford, ha detto sì a un confronto “costruttivo” con May, pur ribadendo la differenza delle posizioni. Mentre Corbyn ha preteso che venga tolta dal tavolo una qualunque ipotesi di uscita “no deal” dall’Ue. Ciò che May non può naturalmente promettere. Non solo perché la sua si è rivelata una tattica più che una strategia, e oltretutto fallimentare, ma anche perché subisce il ricatto della fronda del suo partito, che ieri ha mantenuto in vita il governo soltanto per non correre il rischio di vedere convocate elezioni anticipate. Divisi come sono, i Tory ne uscirebbero, meritatamente, con le ossa rotte. L’apparente contrordine di ieri, dunque, lascia le cose come erano ventiquattro ore prima, cioè male. Nel corso del dibattito, May del resto non ha dato alcuna indicazione vera di come pensi di uscire dal vicolo cieco, salvo un riferimento vago e solo ipotetico alla richiesta di uno slittamento dell’articolo 50 e di rinvio di qualche mese della Brexit. Che comunque andrà attuata, nel rispetto del voto referendario. “Mai il rischio di un no deal è stato così vicino”, ha constatato ieri il capo negoziatore Michel Barnier. “Nel momento in cui avremmo bisogno della massima flessibilità – ha riconosciuto un anonimo ex fedelissimo di May a Laura Kuenssberg, political editor della Bbc – abbiamo sotto questo profilo la peggior leader possibile”. Più correttamente avrebbe dovuto dire i peggiori leader.