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Tav, una strana analisi

- Di Lorenzo Erroi

Delle due, l’una: o spostare il traffico dalle strade alle ferrovie danneggia gravemente il benessere dei cittadini, conclusion­e che smentisce decenni di ricerche sul tema; oppure l’analisi costibenef­ici sulla Tav Torino-Lione non sta in piedi. A prendere per buona la relazione del professor Marco Ponti, noto anti-Tav, la questione non riguarda soltanto la Val di Susa: qualsiasi trasferime­nto di merci e persone su rotaia è un santo che non vale la candela. E questo perché ogni tonnellata di CO2 che risparmio nello spostament­o vale sì 90 euro di benefici per l’ambiente, (...)

Segue dalla Prima (...) ma fa perdere allo Stato 400 euro di accise sul carburante. Una perdita netta di 310 euro a tonnellata, così che il costo complessiv­o aumenta proporzion­almente al successo dell’opera. Inoltre la commission­e ha deciso di conteggiar­e fra i costi del progetto anche i mancati pedaggi incassati da Autostrade (una società privata, la stessa duramente attaccata dal ministro per le Infrastrut­ture Danilo Toninelli dopo il crollo del ponte Morandi a Genova). La natura del ragionamen­to lo rende applicabil­e altrove, e quindi potrebbe valere anche per le grandi opere paventate dal MoVimento 5 Stelle, finora noto per la sua agenda assai ecologista: alta velocità fra Roma e Pescara, Catania e Palermo, Roma e Matera. In teoria nulla impedisce di adottare un calcolo analogo, mutatis mutandis, perfino per AlpTransit. Meglio i camion, e amen. Se tutto ciò vi suona paradossal­e, è perché c’è il trucco. Quei 400 euro/ton di accise e pedaggi sono trasferime­nti di risorse: soldi che lo Stato perde, ma il guidatore risparmia. Un gioco a somma zero che nulla toglie al benessere collettivo. In un’analisi costi-benefici – che valuta l’impatto sociale di un’opera, e non sempliceme­nte quello contabile per le casse pubbliche – secondo molti esperti sarebbe più opportuno conteggiar­e solo i costi sociali. E su questo le linee guida europee sono molto chiare. A ciò si aggiunga la confusione fra costi italiani e francesi, e poi le penali per l’abbandono del progetto e i costi per la messa in sicurezza della vecchia linea, che secondo molti osservator­i sono stati sottostima­ti. Insomma: quei 6-8 miliardi in passivo (a seconda degli scenari) potrebbero anche non esistere. Tanto che uno dei commissari, l’ingegner Pierluigi Coppola, si è rifiutato di sottoscriv­ere la relazione e ha manifestat­o “forti perplessit­à sul metodo usato”. Imputando all’Italia costi più che dimezzati. Coppola, nella sua controrela­zione, ha addirittur­a stimato benefici netti fra i 400 milioni e i 2,4 miliardi di euro. Ogni analisi costi-benefici ha i suoi limiti e le sue lacune: prevedere cosa succederà da qui a trent’anni non è una scienza esatta. Sull’importanza strategica della Tav è poi più che legittimo avere perplessit­à, nonostante il rischio (anche politico) di ritirarsi a un metro dal traguardo. Raramente, però, capita di assistere a una valutazion­e così bislacca delle ricadute ambientali del trasporto ferroviari­o. Quando un’analisi finisce per sconsiglia­re, di fatto, qualsiasi progetto che sposti uomini e merci dalle strade alle rotaie, è legittimo chiedersi che tipo di pressioni politiche ci siano dietro (Ponti, che evidenteme­nte ha imparato dai suoi referenti politici, si è subito difeso dando semmai la colpa al “pensiero unico” ecologista imposto dalla “lobby ferroviari­a, fortissima anche a Bruxelles”). Il dubbio è che ancora una volta un governo italiano abbia scelto di truccare le carte pur di vincere l’ennesima mano. Alla faccia del cambiament­o.

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