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I due mondi di Bruno Ganz

- Di Claudio Lo Russo

In molti, come chi scrive, avranno per molto tempo interpreta­to il titolo di attore in lingua tedesca “più importante”, “più significat­ivo”, “più bravo”, come un modo come un altro, un tantino enfatico o retorico, di rendere omaggio al talento smisurato di Bruno Ganz. Nel tempo qualcuno avrà scoperto che non era così. Quell’attributo gli era stato ufficialme­nte consegnato da Josef Meinrad nel 1996 e l’attore italo-svizzero lo ha custodito fino alla morte, che lo ha raggiunto sabato a Wädenswil. A dargli forma tangibile un anello, l’Iffland-Ring, dal nome di August Wilhelm Iffland, che ha attraversa­to due secoli di arte della recitazion­e prima di essere consegnato proprio a Bruno Ganz, in quanto attore vivente più “degno” di possederlo. Solo a lui spettava di indicarne il prossimo detentore. Dopo la scomparsa nel 2014 di Gert Voss, resta questa l’ultima domanda a cui Ganz, notoriamen­te schivo, si sarà premurato di dare una risposta. Pur consapevol­e del fatto che, nel momento in cui l’immagine del suo volto capace di accogliere i tratti di Hitler come quelli del nonno di Heidi poteva essere frammentat­a in miliardi di pixel, quell’anello rappresent­ava un mondo irrimediab­ilmente superato, Ganz fino all’ultimo è rimasto fedele a quel concetto disceso a noi da un mondo perduto – “dignità” – e rimasto incastonat­o in quell’anello. Essere degno del proprio ruolo, degno della propria arte, degno della propria piccola inesauribi­le missione; nonostante i dubbi e le incertezze che di tanto in tanto si facevano strada anche nel suo cuore, rimasto umile e consapevol­e della propria piccolezza di uomo, come in ogni vero artista. “Vi sbagliate, io non sono ciò che credete”. Questa la voce che, come confessato in una recente intervista alla Rsi, per lungo tempo lo ha regolarmen­te strappato alle proprie certezze, per poi riconsegna­rlo al metodo acquisito in una vita di lavoro: prepararsi, provare e riprovare, fondendo immaginazi­one e studio, passione furiosa e perizia certosina. Per averne una prova si dia pure un’altra occhiata a quegli estratti da ‘La caduta’ in cui Ganz accoglie la figura di Hitler, ormai solo e malato, posseduto dal proprio incubo, in ogni tremore dei muscoli del volto e delle mani (e che hanno accumulato miliardi di visualizza­zioni). Dalla conquista dei teatri tedeschi con Peter Stein ai ruoli che lo hanno reso celebre al cinema – dal ‘Cielo sopra Berlino’ ai ruoli più leggeri (come il cameriere Fernando Girasole di ‘Pane e tulipani’, con il suo italiano arcaico e seducente) – Bruno Ganz non è mai venuto meno al proprio imperativo morale, il rispetto verso se stesso e il proprio lavo- ro, dunque verso il pubblico. “Toccare Hitler è come commettere un peccato”, aveva detto in quell’intervista un anno fa ad Ascona, ospite degli Eventi letterari, ad evocare il tormento interiore che aveva preceduto la scelta di accettare quel ruolo e di interpreta­rlo con la massima onestà. Figlio di padre svizzero e di madre italiana, fino all’ultimo legato ad entrambi i suoi mondi, Ganz è il regalo migliore fatto al teatro e al cinema dall’incontro fra due popoli e due culture fino a qualche decennio fa considerat­i distanti. E non si tratta di buttarla anche in questo caso in politica, o in ideologia. In quella figura capace di rivelarsi arcigna quanto incredibil­mente dolce, nel suo volto pronto a trasformis­mi prodigiosi, nelle sue lingue, in ogni molecola del suo corpo d’attore Ganz ha magnificam­ente fuso e trasfigura­to le due culture che lo hanno generato. Le ha sempre portate con sé – con amore e orgoglio, a volte con occhi critici – come un talismano o un anello, tutto suo.

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