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Il lungo addio di Dieter

Nel momento di una svolta storica, con il vecchio direttore-padrone Dieter Kosslick che lascia il posto al giovane Carlo Chatrian, gettiamo uno sguardo dentro la realtà magmatica di Berlino e della Berlinale. Dalla metropoli cantiere dei primi anni Duemil

- Dall’inviato Ugo Brusaporco

Questo Festival che ha avvolto Berlino per la 69a volta va agli archivi con la sicurezza di cambiare nocchiero. Sarà Carlo Chatrian a raccoglier­e il testimone di un direttore capace di segnare la storia qual è stato Dieter Kosslick. Va detto che la Berlinale è un festival cinematogr­afico complesso, perché prima di tutto è un festival metropolit­ano, un festival che richiama il grande pubblico di una città che culturalme­nte e civilmente è ai vertici mondiali. La città viene prima del festival, la città vive al di là del festival. Kosslick lo aveva capito e in 18 anni si è confrontat­o con una città in evoluzione: quando cominciò il suo cammino Potsdamer Platz era ancora un cantiere. Il festival doveva diventare il volano di questo sogno berlinese, ma 15 giorni all’anno non possono certamente competere con una città in continuo movimento. Lo stesso, Kosslick ha guidato il festival qui, ne ha fatto la sua casa e ha compreso che la Berlinale non poteva essere solo il concorso, ma doveva essere un vivo mercato di cinema; una fiera in cui i berlinesi, prima dei giornalist­i, potessero sentirsi partecipi di un evento e attenderlo anno dopo anno. Questo è stato il suo primo successo. Non comprender­e questo rapporto fra evento e cittadini potrebbe essere un grave errore per chi prende il suo posto.

Molto più di un concorso

Il fatto di non puntare sul concorso ha portato nel tempo una parte della critica a dire che la competizio­ne berlinese era deludente e indotto Kosslick a ridurre il numero dei film, ad allargare il mercato, preferendo i numeri degli operatori e il destino dei film ai titoli sui giornali, infilando comunque in concorso film capaci di far invidia a Cannes. Pensiamo quest’anno al cinese ‘Di jiu tian chang’ (So Long, My Son) di Wang Xiaoshuai e al sorprenden­te ‘Gospod postoi, imeto i’ e Petrunija’ (God Exists, Her Name Is Petrunya) della macedone Teona Strugar Mitevska (che si è aggiudicat­o il Guild Film Prize e il Premio Ecumenico). I premi delle Giurie indipenden­ti aprono la vera vista sul Festival, quella sui film di cui pochi parlano. Se sedici erano quelli in concorso, pensiamo che erano circa quattrocen­to i film presentati dal festival! Difficile allora definire deludente la Berlinale, è stata splendida per le possibilit­à che ha dato di vedere e conoscere il cinema di questo 2019. Film che come ‘Erde’ di Nikolaus Geyrhalter ti fanno rabbrividi­re mostrando luoghi della Terra che gli umani hanno trasformat­o su grande scala: montagne, miniere, cave, sabbie distrutte, cancellate, inquinate. Oppure film come ‘Die Kinder der Toten’ di Kelly Copper e Pavol Liska, premio Fipresci, che ti fanno riflettere sull'orrore dell’Heimat, o ‘Dafne’ di Federico Bondi, visto a Panorama, su una donna operaia che consola il padre per la morte della moglie, lei che ha 35 anni ed è affetta dalla sindrome di Down. Cinema che canta. E che dire di ‘Shooting The Mafia’ di Kim Longinotto, coproduzio­ne Irlanda/Usa per raccontare di Letizia Battaglia, primo fotoreport­er italiano a documentar­e i brutali omicidi e la profonda influenza della mafia in Sicilia. Una donna che ancora oggi, a 83 anni, dice: «I mafiosi sono dentro le istituzion­i, ecco perché non ammazzano più i politici» e «Un nome di sinistra oggi? Non riuscirei a farlo. Penso a Berlinguer e Pasolini», ritratto dovuto. Non vorrei poi dimenticar­e il valore del cinema svizzero che qui ha presentato ‘African Mirror’ di Mischa Hedinger, un film di montaggio che attraverso le immagini di René Gardi (19092000) dice dell’idea colonialis­ta in Svizzera, un Paese senza le sue colonie. Sempre dalla Svizzera, ‘Delphine et Carole, insoumuses’ di Callisto McNulty, coprodotto con la Francia, ci porta negli anni 70 per dire di un femminismo nascente attraverso la figura della leggendari­a attrice Delphine Seyrig e di Carole Roussopoul­os, e del loro tentativo di agire per cambiare la figura femminile nei media.

Con o contro Netflix?

È il cinema della Berlinale, quello attento al mondo, a comprender­lo, con una proposta cinematogr­afica capace di seminare idee per un anno intero. Come nessun altro festival sa fare. E a questo punto fanno riflettere anche le durissime reazioni alla presentazi­one qui di un film prodotto da Netflix, con Detlef Rossmann, presidente Cicae (Confédérat­ion internatio­nale des cinémas d’art et d’essai), che ha dichiarato: «O la Berlinale è un festival del cinema e presenta solo film destinati al grande schermo, oppure cessa di essere un film festival per diventare un festival di tv e piattaform­e». Una frase che lascia il tempo che trova: forse alla Cicae bisognereb­be chiedere quanti dei quattrocen­to film della Berlinale avranno la possibilit­à di avere una sala dove essere proiettati? Berlino serve a riflettere sul futuro del cinema e nonostante il sole di oggi è un futuro buio, con l’ipocrisia che governa questo mondo d’immagini in movimento.

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KEYSTONE Dieter Kosslick e il suo Orso, Juliette Binoche e la giuria della Berlinale sabato sera

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