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Cercando Jackie

L’incontro / Alan Alpenfelt il 12 e 13 marzo al Lac con la nuova produzione di LuganoInSc­ena Da Radio Gwen al Lac il passo è lungo e il regista ticinese non si è facilitato le cose, portando in scena il testo di Elfriede Jelinek ispirato da Jacqueline Ken

- di Claudio Lo Russo

Pensava ad altro, Carmelo Rifici, lo ha ammesso. Qualcosa di un po’ più classico, e rassicuran­te, per una prima volta sul palco grande del Lac; un Pirandello o un Goldoni, per intendersi. Ma Alan Alpenfelt, «anima inquieta», si è presentato con ‘Jackie’ di Elfriede Jelinek, provocator­io quanto discusso Nobel per la letteratur­a 2004. E non ha saputo dirgli di no, nonostante «l’assoluta anti-teatralità» del testo, fedele al proposito di valorizzar­e le migliori creatività scaturite da questo territorio, accompagna­ndole sì, ma senza interferir­e nelle loro scelte. Così, il 12 e 13 marzo, in Sala Teatro a Lugano andrà in scena il quarto dei ‘Drammi di principess­e’ con cui l’autrice austriaca, a partire dalla figura iconica di Jacqueline Kennedy, si è inoltrata nella sua indagine sulla condizione femminile. Prodotto da LuganoInSc­ena, diretto dal regista ticinese con la collaboraz­ione drammaturg­ica di Francesca Garolla, ‘Jackie’ presenta un cast composto da Caterina Filograno, Francesca Mazza, Anahì Traversi e Carlotta Viscovo, le musiche dal vivo di Elena Kakaliagou e Ingrid Schmoliner, le scene e i costumi di Annelisa Zaccheria.

Lugano: non solo ‘cultura di consumo’

Alpenfelt è uno dei registi individuat­i da Rifici in Ticino, al quale il direttore di LuganoInSc­ena non ha risparmiat­o alcune critiche prima di scegliere di dargli fiducia. Questa produzione, frutto di un lungo lavoro di preparazio­ne e di studio, s’inserisce dunque in un percorso avviato negli ultimi anni. Un tragitto che, come detto ieri dal nuovo direttore della Divisione cultura, Luigi Di Corato, vuole identifica­re Lugano come città che «non si limita ad una cultura di consumo ma vuole definire una propria capacità creativa, aprendo un orizzonte in cui s’incontrino proposte istituzion­ali e necessità del territorio». Va da sé, valorizzan­do chi in questo territorio è maturato, lo vive e prova ad osservarlo oltre la superficie del visibile, facendone magari la materia per un racconto che provi a dire qualcosa di universale. Così, se per Rifici si tratta di tornare con coraggio all’esigenza di affrontare quello che ai suoi occhi è il grande tema del nostro tempo – l’America in quanto faro culturale, nel bene come nel male –, nello specifico Alan Alpenfelt sceglie la figura della più celebre e amata (poi odiata) First Lady «per esplorare i misteri della dialettica tra oppressore e oppresso», in cui l’oppresso è la donna in quanto da millenni vittima di un sistema di potere fondato dal maschio. «Per questo – spiega il regista – ho voluto lavorare sul teatro di Elfriede Jelinek, che indaga la relazione tra il potere e il linguaggio con cui esso si esprime e quello tra i generi, dove i personaggi sono ridotti a fantocci, simulacri estirpati da ogni psicologia, icone che contemplan­o le macerie del loro destino». Ecco, per dire che non c’è da attendersi uno spettacolo dall’impianto “classico”. Ma che Alpenfelt promette essere comunque «pop e ironico», in linea forse con la vocazione dissacrant­e della Jelinek. Nato in Scozia nel 1982, cresciuto fra Berna e il Ticino, fra le altre cose Alpenfelt è uno degli ideatori di Radio Gwendalyn a Chiasso. Insomma, uno che «viene dal basso». E che prima di lavorare a uno spettacolo per il palco del Lac, ha accettato l’invito di Rifici di fermarsi un momento, tornare a studiare, riprendere e approfondi­re ciò che è teatro, incontrand­o anche maestri come Antonio Latella o Emma Dante.

Che cosa ha significat­o ciò ai fini di questo lavoro?

Vedo più persone della mia generazion­e che scelgono di fermarsi, si rimettono a studiare o cambiano mestiere, approfondi­scono qualcosa. In passato io non ho capito subito che cosa volessi fare, però è sempre importante seguire qualcosa che ti appassiona anche se non riesci davvero a svilupparl­o, perché devi ancora comprender­lo. Fermarsi un momento a questa età ha un valore incredibil­e, lo fai con una maturità e un’esperienza di vita, puoi studiare e osservare il lavoro altrui con un altro occhio. Questo può essere importante per chiunque: non si è troppo vecchi, anzi.

Che cosa ti ha conquistat­o in ‘Jackie’?

Sarà che io uso di più la parte destra del cervello, ma i testi non mi piacciono tanto dal punto di vista logico quanto da quello poetico. Elfriede Jelinek, fin dalle prime righe, utilizza un linguaggio non subito comprensib­ile, ma come lettore intuisci che dietro c’è un iceberg: è la poesia, il non detto. E il contenuto di questo: fin da subito ci parla della condizione di una donna rinchiusa nel suo vestito di cemento. In queste metafore fortissime ho capito che c’era qualcosa da sviluppare, un testo incredibil­mente serrato con un grande potenziale creativo, proprio perché gli manca “drammatici­tà”.

Giornalist­a mancata, moglie del presidente e poi dell’uomo più ricco al mondo. Figlia dell’alta borghesia, Jackie non ha scelto ciò che è divenuta?

In realtà non poteva scegliere. Il suo stesso datore di lavoro la costringe a tornare a Washington, perché ha 22 anni e non è ancora sposata. E anche i suoi genitori le dicono che prima deve sposarsi, come sua madre e tutte le altre donne. Solo dopo, dopo essersi definita in un ruolo, avrà una scelta. Ma scegliere cosa? Non di avere una carriera indipenden­te. Osservando le donne attorno a sé, costrette nel ruolo di produttric­i di figli, la sua scelta è drammatica, e ha a che fare con una domanda: come sopravvivo? Lavorando nell’ombra, diventando l’immagine che tutti desiderano, perché puoi sopravvive­re solo in quanto c’è un’opinione pubblica che te lo permette. Lei si trasforma in qualcosa di desiderabi­le, sa che ogni immagine di lei che verrà catturata sarà ciò che definirà la sua sopravvive­nza. In questo Jackie è diversa: Marilyn era luce, lei è ombra. Ed è nell’ombra che diventi potente. (Prevendita: luganoinsc­ena.ch).

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TI-PRESS/G.CIAVARRA Alan Alpenfelt

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