Le origini del caos
“Il fallimento più grave della mia presidenza è stata l’impreparazione a ciò che seguì il rovesciamento del regime di Muhammar Gheddafi”. Barack Obama, nel 2016, ebbe almeno l’onestà di ammetterlo. Non si sa quanto occorrerà attendere perché lo facciano Nicolas Sarkozy e David Cameron, presidente francese e primo ministro britannico dell’epoca. Sta di fatto che la disgregazione del Paese e il caos che ancora oggi vi domina sono la conseguenza della guerra anglofrancese (con il generoso concorso europeo e statunitense) che portò alla destituzione di Gheddafi nell’ottobre 2011. E non occorre essere nostalgici di un dittatore per constatare che quell’autunno delle primavere arabe, se mai fu una rivolta popolare contro il regime, cessò ben presto di esserlo rivelando la propria natura di guerra per bande. Islamiste, monarchiche, secessioniste, etniche: unite dal comune obiettivo di rovesciare il colonnello e, soprattutto, di mettere le mani sulle immense ricchezze del Paese. E se la guerra civile siriana ha destabilizzato un’area estesa dal Mediterraneo all’Eufrate (lasciando tuttavia al potere il despota Bashar al Assad), la disgregazione libica, benché meno conosciuta nella sua estensione, ha ancora un potenziale distruttivo proiettato sull’intera Africa subsahariana (anche come retrovia e santuario di milizie attive su teatri diversi, a partire dalle varie filiazioni locali di al Qaida e Stato islamico). Una partita disputata non solo da eserciti privati o irregolari, ma principalmente da Paesi che se ne servono per accrescere la propria influenza sull’intero Nord Africa, per più o meno plausibili ragioni di “sicurezza interna”. In questo scenario, il primo ministro tripolino Fayez Sarraj (riconosciuto dalle Nazioni Unite) e il generale cirenaico Khalifa Haftar si contendono ciò che dipende da altri ottenere. Il secondo pare in vantaggio. Fino a quando non si sa.